L’uso del linguaggio politicamente corretto – imposto da ormai troppi anni dall’intellighentia delle élite da salotto – ha trascinato sull’altalena concetti importanti come quello di patria. Trasformandolo poi in una brutta parola, da evitare da parte dei “veri” democratici. Chi la pronuncia viene subito etichettato, messo ai margini e senz’altro iscritto sulla lavagna nella colonna dei cattivi.
Per non parlare del classico trinomio “Dio, patria e famiglia”. Un tempo fondamento di una solida base culturale, è relegato oggi a formula impronunciabile, lesiva dei (malintesi) valori di libertà individuale e democrazia. Cosa da bacchettoni baciapile, indegna di cittadini illuminati dal progresso.
Per chi, incuriosito, volesse approfondire, consigliamo un bel libro di una delle menti più lucide del nostro tempo, Marcello Veneziani (Dio, Patria e Famiglia dopo il declino, Mondadori, 2012). Si cerca di spiegare il tramonto di questi valori fondanti in un declino naturale, cui gli eventi del ‘68 non sono estranei, ma che tuttavia caratterizza questi ultimi vent’anni.
L’insieme del crollo di un muro, di due torri e di tre valori sembrerebbe oggi ben rappresentare la nascita di un’epoca nuova. Con la caduta del Muro di Berlino dilaga la globalizzazione, con quella delle Torri Gemelle incomincia il tramonto della supremazia occidentale, con il declino di religione, patria e famiglia si spegne una civiltà e si prova a ridisegnare la condizione umana.
Alla generazione di cui faccio parte, quella degli anni Trenta, tutto ciò non piace: lo avvertiamo come una violenza alla nostra natura. Ma tant’è, chi combatte una battaglia perduta, ne deve essere consapevole. Oggi occorre fare uno sforzo per capire cosa c’è al posto dei valori perduti e da dove si può ripartire per salvare, se è ancora possibile, ciò che resta della nostra cultura.
Ritornando all’espressione patria – che l’altalena del tempo allontana e avvicina con maggiore frequenza – ci accorgiamo che i tempi nuovi ne hanno già deformato il significato. Una volta ci suonava come una parola dolce, che richiamava il focolare domestico, il territorio dell’infanzia, le origini della famiglia, i costumi e la lingua, ma (perché no?) anche il dialetto usato dalla nonna. Sostituirla con “Paese”, sia pure con la P maiuscola, non vale. Patria non è solo geografia.
Per noi nati sul confine orientale c’erano altre due parole, una tedesca, heimat, e l’altra slovena, dòmovina, che ci accomunavano. Con la guerra perduta, la presenza in Italia del più grande partito comunista dell’occidente, assieme passaggio di mano della cultura, una sorta di rigetto allontanava la parola patria intesa come sentimento.
Il patriottismo, atteggiamento buono e inclusivo, assumeva il significato di nazionalismo, sentimento esclusivo. Gli stessi militari, nella cui formula di giuramento c’era ancora la parola patria, venivano guardati con sospetto.
Dopo la fragorosa caduta del Muro e del comunismo, con le missioni internazionali si è verificata una progressiva apertura delle istituzioni militari, rimaste per anni assediate e asserragliate nella loro turris eburnea.
Ed ecco che, attraverso una rivalutazione delle Forze armate, progressivamente la maggioranza del popolo – fatte salve le solite élite depositarie della verità – si è riavvicinata al concetto di patria, rappresentato dai nostri militari in modo visibile.
Il bagno di folla, l’entusiasmo e gli applausi alla parata dello scorso 2 giugno sono un chiaro segno di come l’altalena stia tornando verso di noi. Fino a quando?