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Sovranità politica ed economia. La terza via per la Ue

brexit, minuto Europa Fondi europei, Da Empoli

In maggio sono in programma le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo; la campagna è già iniziata. Questa volta il confronto non è tra concezioni differenti di quella che dovrebbe essere la politica europea, un quadro, però, sostanzialmente consensuale (di giungere a un’Unione sempre più stretta) quale quello che è stata, per decenni, la competizione tra popolari e socialdemocratici. È uno scontro molto più serrato tra populisti-sovranisti, che intendono riappropriarsi, principalmente in materia di politica economica, di parte della sovranità ceduta alle istituzioni europee o di cui le istituzioni europee si sarebbero (più o meno fraudolentemente) appropriate, e gli europeisti sulle loro posizioni confederaliste o federaliste di sempre. I populisti-sovranisti hanno la probabilità di avere la meglio per le ragioni illustrate acutamente da Giovanni Orsina in La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio, 2018) .

Il dibattito è stato animato da una proposta di una terza via, lanciata da Giorgio La Malfa, il quale è tanto economista quanto politico di lungo corso. Parte anche lui dall’assunto che uno scontro tra due concezioni della politica e dell’economia europea, quella sovranista ha probabilità di avere maggior successo e sottolinea come l’errore maggiore (nel percorso europeo) sia stata un’unione monetaria mal concepita e mal gestita. La Malfa traccia, quindi, un’Europa delle regole, con una forte componente politica, ma senza moneta unica o (se si vuole) un euro unicamente per il gruppo di Paesi che rappresentino un’area monetaria ottimale come quella teorizzata da Robert Mundell nei lontani anni Sessanta.

La proposta non è priva di fascino, soprattutto per chi, come me, negli anni in cui si andava verso l’euro teneva una rubrichetta quotidiana su Il Foglio in cui si sosteneva che l’Italia avrebbe dovuto, prima di accedere all’unione monetaria, attendere che il progetto fosse decollato e avesse funzionato per qualche anno. In quel lasso di tempo, il Paese avrebbe fatto le riforme strutturali che lo avrebbero messo in grado di competere adeguatamente con gli altri.

È, però, difficile rimettere le lancette dell’orologio indietro di un quarto di secolo. Nell’ipotesi che si possa recedere dall’euro, restare nelle altre politiche europee e anche aggiungerne altre (ad esempio, nell’area della sicurezza e difesa comune), il costo dell’uscita sarebbe una massiccia svalutazione (circa del 30%), che graverebbe interamente sulle categorie a reddito fisso, innescando seri problemi sociali.

Una terza via è possibile. Il disegno originale era quello di un percorso pluriennale per consentire di entrare nella moneta unica a chi voleva e poteva effettuare il riassetto strutturale necessario per fare parte dell’unione monetaria. Su questi obiettivi erano tarati i parametri di Maastricht e sono stati successivamente creati accordi intergovernativi come il Fiscal compact. I parametri rispecchiavano la situazione degli anni Novanta del secolo scorso, quando ad esempio il debito pubblico dei Paesi di quella si prospettava come l’eurozona era pari al 60% del Pil (non al 90% come adesso). Quanta della costruzione politico-amministrativa di allora è ancora necessaria? Dato che – si guardi alle vicende dell’Argentina nelle ultime settimane – i mercati forzano molta più disciplina dei parametri e dei voti di quella Commissione europea che Charles De Gaulle chiamava un aréopage technocratique, apatride et irresponsable.

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