Ecco una parola ipnotica che ormai non esce più dal nostro vocabolario: populista. Lanciata come una freccia avvelenata contro il nemico dalla pattuglia, sempre più sparuta, degli “altri”, usata come trofeo da appiccicare sui labari dagli “uni”, suoi schietti interpreti di lotta e di governo, difesa da quelli che si cibano di pane e Rete (“i populisti sono con il popolo”), sdoganata perfino da Papa Francesco nel suo discorso siciliano “l’unico populismo possibile è quello cristiano”, la paroletta ci insegue e ci pervade da un bel pezzo. Ma, come tutte le parole ipnotiche, resta lì non convocata e non spiegata, a raccontarci storie che non sappiamo.
Che vuol dire populismo? Se marxismo significa seguace del pensiero di Karl Marx, liberismo vuol dire propugnatore del pensiero liberale, nelle varie tonalità possibili e centrismo verrebbe a significare aderire a posizioni intermedie tra destra e sinistra, incarnate nell’accezione italiana dalla vecchia Dc, essere populista dovrebbe voler dire stare dalla parte del popolo. Cosa commendevole e da incoraggiare, dunque. Ma è questo davvero il significato della paroletta? In realtà il lessema populista ci viene restituito dall’inglese populism che traduce a sua volta addirittura un termine russo narodnicestvo. Quest’ultima parola, translitterata dal cirillico, ricorda il movimento politico sorto nella metà dell’ottocento nella Russia zarista per affermare una sorta di socialismo rurale adoperando anche metodi violenti. Furono, infatti, i populisti russi a far fuori fisicamente lo zar Alessandro II. Declinazioni del populismo la scienza politica le indica nel nazionalpopulismo, categoria che comprende movimenti di tipo fascista o militarista, dal nazionalsocialismo tedesco al peronismo argentino (J.D.Peròn, presidente dal ’46 al ’55) al getulismo (dal nome del presidente brasiliano Getùlio che governò il paese dal ’51 al ’54 ), fino al populismo americano, sorto a fine ottocento per dar voce alle aspirazioni del ceto agrario del sud e dell’ovest, contro il capitale industriale per restaurare una società arcadica di piccoli proprietari terrieri.
Delle suggestioni populistiche, infine, non è estraneo un pezzo della rivoluzione francese che propugna una democrazia diretta contro l’ideale inglese della democrazia rappresentativa, suggestione recuperata da Sorel, che giunse al fascismo attraverso le letture dell’intellettuale francese fatte da Mussolini. Fin qui le origini nobili. Cosa si intenda oggi per populismo è spiegato dal Manuale di politica della Laterza, a cura di Esposito e Galli (ed.2005): “Il populismo è un atteggiamento politico favorevole al popolo, identificato nei ceti sociali-economici più umili e sovente culturalmente più arretrati, ma concepito in modo generico e velleitario: di qui il carattere prevalentemente demagogico”. Più avanti la voce spiega come questa ideologia “suole adulare il popolo” facendo proposte politiche d’effetto per “gratificare il popolo minuto” e difenderlo “dai raggiri machiavellici dei ceti dominanti”, proposte che non sono in grado di incidere efficacemente sui problemi complessi delle società contemporanee, ma sono destinate a svolgere solo una “funzione strumentale perché dirette a perseguire solo obiettivi di mera conquista e conservazione del potere”. Naturalmente col passare degli anni il pantheon populista si è allargato a nuovi aulici protagonisti, da Trump ad Orban, da Putin ad Erdogan, dai telepopulisti ai populisti on line e chi più ne ha più ne metta.
Qual è il filo che tiene uniti codesti illustri personaggi? La banalizzazione del discorso pubblico, puntando agli istinti basici del corpo elettorale, il leit motiv della disintermediazione: via sindacati, partiti, associazioni, parlamenti, stampa, tutto ciò che si frappone tra il leader e il popolo e, ovviamente, via le elite intellettuali, politiche, imprenditoriali, la cui vocazione a cambiare le carte in tavola è nota. Se qualcuno dovesse trovare qualche elemento di somiglianza tra il quadro descritto e la situazione italiana lo faccia pure ma non dica che gliel’ho detto io.