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Vi spiego l’Università in Italia ai tempi del contratto gialloverde

Di Antonello De Oto
concorsi

Si sa in Italia esistono sempre due versioni, due cuori, due anime, due letture almeno per ogni cosa, per ogni dossier che si porta all’attenzione di chi decide.
Ma è oggi opinione abbastanza condivisa nel dibattito pubblico che, su temi attinenti l’istruzione superiore, l’alta formazione e la ricerca scientifica in questo Paese, pur di complessa e stratificata lettura, si sia formata una convinzione pubblica che sembra avere due corni: le eccellenze stanno fuori l’Accademia e dentro l’Accademia vi è una cappa di baronia che soffoca i giovani e gli indipendenti. Entrambe le affermazioni contengono una parte di verità e una parte di superfetazione e delirio antinazionale (nel quale siamo tristemente maestri).

Partiamo dal primo punto. Non è vero che le eccellenze “stanno fuori”. Si tratta di una semplificazione giornalistica che ha portato a una risposta emozionale. Al varo di programmi ministeriali per il rientro di cervelli. In molti hanno avuto negli anni la possibilità di andare a insegnare fuori dall’Italia con cattedra subito pronta e molti soldini ma con un decimo degli stimoli scientifici che la vecchia Europa poteva dare. Qualcuno è andato e qualcuno ha scelto di stare qui. Entrambe situazioni con vantaggi e svantaggi. Il programma rientro dei cervelli è stato dunque uno “spottone” mal riuscito che ha prodotto poco e speso molto, riportando indietro pochi studiosi che spesso si sono trovati fuori contesto e molto presto nella maggior parte dei casi hanno scelto di tornare al primo amore: la ricerca all’estero.

Rimanere in Italia non è certo facile. Esiste una classe accademica ben strutturata in ogni settore, ci sono caste stratificate di “frenatori” come le definisco da tempo, ovvero persone che hanno il compito più o meno scritto di rallentare i “bravi non previsti”, i migliori non graditi… ma qualche volta anche i frenatori, pur essendo eccellenti professionisti, non riescono a portare in fondo l’opera, anche grazie all’aumento dei meccanismi di legalità e ai parametri di valutazione oggettivi (quando riescono ad esserlo) previsti da qualche anno a questa parte.

Nell’era del “publish or perish” anche i paracadutati, i coccolati, i figli d’arte, hanno l’onere di dover combinare qualcosa. Anvur, Vra ed altri meccanismi di valutazione, pur nella non perfetta trasposizione del sistema da quello inglese a quello italiano, hanno avuto almeno il merito di misurare in qualche modo la ricerca scientifica in Italia, di aumentare il tasso di legalità di alcune scelte.

In tal senso sembrano andare anche le c.d. procedure di idoneità nazionali che pur opinabili per la discrezionalità eccessiva che lasciano ai commissari anche di fronte al superamento di tutti i parametri (non pochi) previsti, hanno comunque avuto il merito di affondare il concorso domestico tout court. Alla fine dunque, paradossalmente, l’Università italiana risulta essere, al netto di tutti i problemi, un sistema antico di regole e di potere che ha fatto il maggior sforzo di rinnovamento negli ultimi anni nell’immobile Italia. E che realizza per tasso di produttività europeo di ricerca pro-capite (ovvero a ricercatore) un invidiabile secondo posto dietro la finanziatissima Accademia olandese.

Una sola cosa non è cambiata e forse non cambierà mai, nonostante la voglia di rinnovare dei pentastellati al governo. I professori ordinari sono al comando della catena alimentare, soli valutatori nei concorsi di idoneità (professori associati e ricercatori sono infatti esclusi) e prestati spesso al funzionamento della macchina politica interna ed esterna all’Università. Soprattutto i professori ordinari prestati ad incarichi esterni, sembrano non risentire della crisi e continuano a viaggiare su standard retributivi che ricordano vecchi fasti repubblicani. Quelli che ingollano più stipendi e sono buoni per tutte le stagioni amministrative, quelli che stanno nelle stanze del potere e mentre i ministri e i partiti passano e si avvicendano, loro, moloch immanenti, stanno sempre lì. Veri gestori del potere che però (dettaglio) dovrebbero essere i protagonisti della vita scientifico-didattica dei loro atenei invece di essere il nervo amministrativo ed “insostituibile” della Repubblica. Alcuni di loro hanno reso questi passaggi sistematici, traghettando le loro membra da dicastero a dicastero come, ad esempio, nel caso del nuovo capo di gabinetto del ministero della Sanità (dicastero affidato proprio ai grillini) già capo di gabinetto del ministero della Coesione territoriale guidato dal piddino Barca e già impegnato ancor prima con il governo Berlusconi. Sembra quindi essere cambiato poco, anche nei riti amministrativi repubblicani, ma stiamo a vedere.

Non molto chiare poi le linee di politica accademica del nuovo esecutivo, infatti, nel contratto fra Movimento 5 Stelle e Lega non si definiscono tempistiche e priorità di intervento. Non si evince come il nuovo governo intenda innalzare la percentuale di laureati fra i giovani, fra le più basse in Europa, né si intuisce se si voglia che tutte le Università continuino a offrire la quasi totalità dei corsi di studio e di ambiti di ricerca oppure si preferisca la logica della specializzazione. Così come non è chiarissimo se il fondo di finanziamento ordinario vada assegnato in base alla spesa storica o a criteri premiali o a esigenze perequative nei confronti degli aAtenei meno attrattivi e geograficamente svantaggiati. O se la selezione di ricercatori e professori debba continuare a passare per il vaglio nazionale con i soli ordinari in Commissione oppure vada affidata ai singoli dipartimenti.

Nel contratto Lega-M5s vi è però un’intentio apprezzabile, ovvero quella di aumentare la spesa universitaria: è un punto di partenza importante, anche se non se ne specifica l’entità. Speriamo almeno in questo. E che sia orientata ad innalzare la spesa pro-studente e ad abbassare l’età media dei nostri ricercatori e professori. Speriamo. Ogni soldo investito in formazione è un soldo ben speso e una buona notizia per il futuro dell’Italia.

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