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Bitcoin, tra mito e realtà

Di Andrea Danielli

È noto agli esperti del settore che il bitcoin non garantisce un perfetto grado di anonimato, dato che tutte le transazioni, e tutti gli indirizzi, sono registrati all’interno della blockchain e visibili a ogni nodo. Per rispondere alla sua pseudonimità, sono stati introdotti negli anni molti strumenti che hanno essenzialmente la finalità di far perdere le proprie tracce. Il primo accorgimento è non utilizzare mai lo stesso indirizzo per i pagamenti, ma cambiarlo di volta in volta, il secondo consiste nell’impiegare un “mixer2, un servizio a pagamento che raccoglie e scompone decine di transazioni contemporaneamente, spezzandone l’importo in maniera casuale e creando una struttura temporale di difficile ricostruzione. Perché un “mixer” funzioni correttamente è però necessario che sia ampiamente utilizzato, un paragone aiuterà a capire il perché: immaginate di essere inseguiti dalla polizia, è ovvio che per far perdere le proprie tracce è più facile infilarsi nel traffico di punta di una stazione della metropolitana di interscambio, mentre è molto più difficile sparire quando non ci sono altre persone con cui confondersi. Pur nascendo con obiettivi evidentemente diversi, i siti di gioco on-line raggiungono gli stessi effetti dei mixer, e pertanto sono ampiamente utilizzati – dal 2014 al 2017 almeno 3,7 milioni di Bitcoin sarebbero passati per siti di scommesse e giochi on-line.

A fronte di questi strumenti diventa difficile ricostruire i flussi sulla blockchain, pertanto chi si occupa di bitcoin intelligence, la disciplina che assiste gli inquirenti sfruttando potenti tecnologie statistiche (clusterizzazione, analisi dei grafi) produce come risultato del proprio lavoro solo una stima probabilistica di utilizzo o origine criminosa.

Negli ultimi anni sono nate nuove criptovalute che consentono di avere un maggiore anonimato fin dall’inizio, come Dash, che ha un sistema di mixing integrato, o Verge, che utilizza TOR per nascondere gli indirizzi IP degli utenti. Molto innovative, perché fondate su principi di crittografia distinti da Bitcoin, sono Zcash e Monero, che portano con sé storie diverse: la prima sta collaborando con le autorità per ottemperare alla normativa antiriciclaggio, la seconda si sta diffondendo nei mercati del dark web.

Alla frequente perplessità sull’utilizzo di bitcoin o altre criptovalute ai fini del riciclaggio di flussi di denaro sporco non vi è ancora una risposta univoca. Infatti, non è stata ancora adottata una normativa sulle criptovalute diffusa globalmente. Se da un lato è evidente che i bitcoin offrono una buona sponda alla criminalità, e il rischio potrebbe essere maggiore se diverse innovazioni ora in discussione venissero adottate (come il Lightning Network o le Schnorr Signatures), serve investire per promuovere una maggiore conoscenza degli strumenti di anonimizzazione e attenzione a tutta la filiera. In effetti, per cambiare i bitcoin con valute fiat (euro, dollaro) è necessario passare per degli exchange che, quando lavorano onestamente, effettuano accurate verifiche sulle operazioni di elevato importo e possono collaborare con le autorità dei propri paesi. Per quanto concerne le altre criptovalute, ben più solide a livello di anonimato, va detto che a oggi Monero capitalizza solo 2 miliardi di dollari e vede circa 4 mila operazioni al giorno, di cui probabilmente un’ampia fetta per mere ragioni speculative. Sono numeri che non consentono, per fortuna, una diffusa adozione da parte del crimine organizzato che, a livello di flussi di denaro, richiede cifre più consistenti per potersi mimetizzare.

Le opinioni espresse non impegnano in alcun modo la Banca d’Italia

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