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Difesa, l’industria italiana a Euronaval raccontata da Festucci (Aiad)

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“Non esiste al mondo un’industria della difesa che non abbia alle proprie spalle lo Stato. Solo insieme si può riuscire ad avere un ruolo internazionale, nelle esportazioni come nella politica estera”. Parola di Carlo Festucci, (in foto), segretario generale della Federazione della aziende italiane dell’aerospazio, difesa e sicurezza (Aiad), che abbiamo incontrato nel corso del salone Euronaval, in scena a Parigi fino a domani. Per l’Italia, a farla da padrona è stato l’accordo tra Fincantieri e Naval Group, il primo passo per un alleanza ben più ambiziosa in campo cantieristico. Eppure, sono intervenute alla rassegna tante realtà d’eccellenza del bel Paese, a partire dalle grandi aziende come Leonardo, Elettronica e la joint venture europea Mbda, fino alle piccole e medie imprese, molte delle quali riunite nel cluster navale. Nel mezzo, la visita del ministro della Difesa Elisabetta Trenta, un segnale di attenzione al comparto nonostante si preannuncino tempi bui per i tagli al bilancio del settore.

Che Euronaval è stato per le aziende italiane?

Si è registrata una presenza delle aziende italiane di buon livello, sia per numero che per qualità. Se tralasciamo il ragionamento sull’accordo tra Fincantieri e la controparte francese, con il coinvolgimento di Leonardo ormai dato per scontato, va messa in evidenza una nicchia di eccellenze tecnologiche straordinarie, rappresentata da piccole e medie imprese di assoluta qualità. In tal senso, hanno fatto particolarmente piacere le visite dei vertici delle Forze armate e del ministro della Difesa, pur in una situazione come quella di oggi, in cui si continua a parlare di tagli come se fosse la cosa più normale da fare. Spero che sia arrivata la consapevolezza del rischio di distruggere un patrimonio tecnologico di prima qualità che potrebbe non venire più recuperato.

Come schivare tale rischio?

Questo messaggio, emerso nel salone, deve essere dato in continuazione. Mi sembra inaccettabile che si possa ragionare con superficialità sugli investimenti per la difesa. Capisco che la scelta delle priorità spetti al governo. Eppure, vanno messe in evidenze due considerazioni. Primo, che le priorità operative sono una scelta della Forze armate, rispetto alle quali l’industria si pone con grande attenzione cercando di dare il meglio con le proprie tecnologie con le capacità delle migliori maestranze. Secondo, che è necessario, nel discutere delle priorità, rendersi conto dell’impatto che si può avere in termini di perdita di capacità e competitività, un’ipotesi che si tradurrebbe nella perdita di un ruolo europeo proprio in un momento in cui pare fondamentale averlo. Sia per i progetti della cooperazione strutturata permanente (Pesco), sia per i fondi già partiti con il programma europeo di sviluppo dell’industria della difesa (Edidp), o riusciremo a essere propositivi e competitivi, oppure saremo marginalizzati, come Paese prima che come industria. Per questo, resto perplesso di fronte alle notizie di nuovi tagli alla difesa. Abbiamo apprezzato il fatto che il ministro stia cercando di portare elementi di buon senso. Spero che vengano percepiti e interpretati nella maniera corretta.

Ad Euronaval, come ormai è consuetudine, l’Aiad condivide lo stand proprio con il ministero della Difesa, mentre anche l’accordo tra Fincantieri e Naval richiede un intesa tra i due governi. È questo un settore che più di altri ha bisogno del coordinamento tra industria e istituzioni?

Sì. È un sistema che si muove insieme e che si è fortemente concretizzato anche con il ruolo della presidenza del Consiglio. In tal senso, voglio dare atto all’ammiraglio Carlo Massagli (consigliere militare di palazzo Chigi, ndr) di svolgere un ruolo straordinario di coordinamento anche sull’export, sui rapporti europei e sul sostegno finanziario alla imprese. È il frutto di un lavoro che è stato fatto passo dopo passo, convincendo tutti che muoversi a livello di sistema è assolutamente più efficace. Non esiste al mondo un’industria della difesa che non abbia alle proprie spalle lo Stato. Solo insieme si può riuscire ad avere un ruolo internazionale, nelle esportazioni come nella politica estera. Non a caso, un contributo importante arriva anche dalla Farnesina e dal ministero dello Sviluppo economico.

Quanto manca per arrivare al tanto ambito “approccio sistemico”?

Ci siamo già arrivati, il problema è rafforzarlo e non perderlo. Si prenda ad esempio la gara per le fregate in Australia (vinta dall’inglese Bae Systems, ndr). È stata una sconfitta solo apparente, anche perché non abbiamo perso per questioni tecniche, ma per pure ragioni politiche, legate soprattutto alla presenza dell’Australia nel Commonwealth. Inoltre, abbiamo raggiunto un risultato straordinario, ovvero l’aver concorso con un sistema consolidato, un patrimonio importante che questa esperienza ci ha lasciato.

Ha citato anche la nascente difesa europea. Cosa dovrà fare l’Italia per essere pronta alla sfida?

Innanzitutto, occorre evidenziare che il progetto di difesa comune è un segnale politico forte sull’Europa. È difficile immaginare una difesa europea integrata senza un’integrazione consolidata a livello politico, e questo si lega a tanti tempi attualmente motivi di dibattito, come l’immigrazione. Poi, però, c’è un altro segnale: quello che arriva da un contesto internazionale sempre più instabile e imprevedibile, che impone all’Europa di essere pronta di fronte alle sfide del futuro. Il problema è che davanti a queste due cose ci sarà l’esigenza di avere un’industria integrata, su cui ogni Paese è chiamato a mettere capacità tecnologiche e peso politico. In tal senso, tagliare i fondi alla difesa appare paradossale. Vorrebbe dire tagliare programmi nazionali che coincideranno probabilmente con quelli europei, levando risorse che ci metterebbero in difficoltà a livello comune. A tutto questo occorre aggiungere il ragionamento relativo all’impatto occupazione.

Ci spieghi meglio.

Se ci saranno dei tagli consistenti, avremo eccedenze occupazionali che si tradurranno in cassa integrazione e in licenziamenti, costringendo lo Stato a utilizzare fondi per il sostegno a tante famiglie. Di fronte a questo scenario, sarebbe certamente meglio investire in un’occupazione qualificata. D’altra parte, i sindacati del settore si sono già mossi esprimendo preoccupazioni. Ad ogni modo, non bisogna ragionare sulla spinta dei timori, ma piuttosto con la volontà positiva di produrre non solo il mantenimento, ma anche lo sviluppo di capacità di prim’ordine che tra l’altro ci permettono di avere un ruolo in Europa. Abbiamo delle eccellenze straordinarie a disposizione. Piuttosto che tagliare, dovremmo metterle a frutto, senza vergognarci delle Forze armate e della Difesa.

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