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Phisikk du role – La formula Singapore e i vessilli di Rousseau

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La solita pandemia che si abbatte virale su whatsapp questa volta ha portato per l’ Italia un personaggio popolare tra gli aficionados di Striscia la Notizia. Pinuccio, questo è il nome dell’inviato che ostenta un inconfondibile accento barese, interroga in un video il “vicepremier” Di Maio sul reddito di cittadinanza, gravato, com’è ormai noto,da perentori divieti legati alla moralità del prodotto che si va ad acquistare.

Pinuccio vuole sapere, visto che le risorse che lo stato metterà a disposizione per il cittadino bisognoso saranno scaricate su una carta ( la memoria storica degli italiani ha l’infausto ricordo della tessera del pane di conio mussoliniano) per poter tracciare gli acquisti effettuati, quali sarebbero quelli vietati per manifesta immoralità e quelli, invece consentiti. E lì scoppietta la gag, con domande del tipo: sono morali le cozze pelose o quelle nere, le pasticche per la lavatrice o il sapone di Marsiglia, le autoreggenti o il collant, e così satireggiando.

Lasciamo stare il merito, la questione del reddito di cittadinanza, su cui non ho una pregiudizialità ideologica ma di metodo e di opportunità in questo frangente complicato in cui l’Italia si muove, e pensiamo a quella carta di credito da cui verrà attinta la dotazione spettante di reddito di cittadinanza. Chi sgarra e, in un momento di voluttà culinaria compra, come Pinuccio, cozze pelose invece che cozze nere, incorre in un reato. Se le furbizie si fanno più gravi, la sanzione può arrivare fino a sei anni di galera. Il cittadino inseguito dalla scia che lascia dietro di sé ha un modello perfezionato in una città-stato orientale di cinque milioni e mezzo di abitanti e si chiama Singapore.

Singapore è formalmente una repubblica democratica che ricalca il modello britannico di Westminister, ma in realtà è il primo stato al mondo ad aver realizzato l’ideale, descritto dai guru di Silicon Valley, del governo dell’algoritmo. Con un governo da cinquant’anni nelle mani della famiglia del fondatore Lee Kuan Yew, la città-stato ficcata nel mezzo della Malesia ha una popolazione ricca e connessa: l’intera vita sociale, dalla passeggiata nelle pulitissime e sorvegliatissime strade dove le telecamere superano di gran lunga gli alberi che le ornano, alla scelta del percorso formativo, alla situazione sanitaria, alla masticazione delle chewing-gum, tutto è patrimonio del sofisticatissimo sistema di dialogo tra smartphone, i-pad, sensori, gestori di Big data.

Il che fa certamente pulitissime le strade e preserva l’arredo urbano, visto che il meschino che dovesse buttare per strada una carta o una cicca ne ricaverebbe per sanzione una maglia rossa con su scritto “sono un sozzone” da indossare in pubblico per una settimana, ma praticamente abolisce quel residuo velo di privacy che, in un modo dove già ognuno di noi si porta dietro la scia elettronica persino dei suoi desideri, ci consente di immaginare che qualcosa di veramente nostro nel profondo l’abbiamo conservato. Un mondo dove persino gli oggetti sono connessi e parlano fra loro e dove buona parte del potere giudiziario viene esercitato non dal giudice ma dal miracoloso algoritmo, somiglia sinistramente ad una favola nera uscita dalla penna inquieta e distopica di Aldous Huxley o George Orwell.

Perché, alla fine della fiera, a Singapore così come in ogni posto dove si celebra l’egemonia dell’algoritmo, resta sempre il problema: chi controlla il Grande Fratello? A Singapore è chiaro: il primo ministro, che dal 2004 è Lee Hsien Loong, figlio di Lee Kwan Yew, fondatore e padre padrone dello Stato. È dunque quello il modello verso cui stiamo andando anche noi italiani, agitando i vessilli di Rousseau? Vorremmo sperare di no e dire a Pinuccio che oggi mangiamo un’ostrica per sognare di essere invece che sotto casa sul lungomare di Saint Tropez.

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