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L’Isis? In Iraq è più debole ma è ancora un pericolo. E noi abbiamo fatto un buon lavoro

La battaglia all’Isis non è finita, ma abbiamo superato la fase più dura. L’Italia ha fatto egregiamente la sua parte, e può essere questo il momento giusto per procedere a un ritiro del contingente dall’Iraq, purché sia progressivo, ragionato e pianificato. È quanto emerge dalle parole di Mauro Del Vecchio, generale dell’Esercito, già comandante del comando operativo di vertice interforze (Coi), con alle spalle una carriera che lo ha visto impegnato, tra gli altri, nei Balcani e in Afghanistan. Attualmente, la missione italiana, nell’ambito della Coalizione internazionale di contrasto al Daesh, prevede un impiego massimo di 1.497 militari, 390 mezzi terrestri e 17 velivoli, numeri definiti nel pacchetto approvato dalle Camera allo scadere della scorsa legislatura e che in realtà hanno perso copertura giuridica e finanziaria lo scorso 30 settembre. In attesa di una proroga, il governo ha confermato quanto era stato annunciato anche dal precedente esecutivo: una progressiva riduzione del contingente. Essa riguarderà prima di tutto il personale posto a protezione della diga di Mosul che, come spiegato a più riprese dal ministro Elisabetta Trenta, vedrà una riduzione di 50 unità entro la fine dell’anno, e poi il completo ritiro nel primo trimestre del 2019.

L’Italia si appresta a ridurre progressivamente il contingente in Iraq. Quale è il suo bilancio della missione?

È stata senza dubbio una missione importante. Il pericolo del Daesh non è completamente superato, ma certamente tutti ricordiamo quanto fosse incombente sulla vita di ognuno di noi qualche anno fa. Debellarlo è stato molto importante, attraverso un impegno che nasceva dalla richiesta del governo iracheno e che ha avuto l’adesione di un numero cospicuo di Stati (circa 79), oltre alle risoluzioni dell’Onu. Per quanto riguarda la partecipazione italiana, sono stati attribuiti ai nostri militari dei compiti di un certo rilievo, in particolare nell’attività addestrativa e formativa del personale iracheno e curdo. Creare le capacità di sicurezza e difesa delle Forze locali è stato un elemento di assoluta rilevanza. A ciò si è aggiunta la salvaguardia della diga di Mosul, effettuata attraverso la presenza e l’impegno dei nostri uomini. Nel complesso, si tratta di un intervento estremamente positivo, sia per i risultati raggiunti, sia per la capacità di aver interpretato un’esigenza che tutti quanti avevano.

Ma la battaglia al Daesh può dirsi conclusa? La minaccia è stata sconfitta?

Direi assolutamente di no. La battaglia contro l’Isis continua e, anche se attenuato nelle manifestazioni, il pericolo è sempre presente. Inoltre, non possiamo nasconderci il fatto che la minaccia, il cui centro di collocazione era prima in Iraq, si è diffusa. La diaspora dei combattenti si è tradotta in tante collocazioni, anche di gruppi più ridotti, in diverse parti del mondo. Per questo non va abbassata la guarda. Non si può correre il rischio di trovarci a dover contrastare di nuovo una realtà del genere.

È questo, secondo lei, il momento giusto per rientrare (seppur progressivamente) dall’Iraq?

È chiaro che l’ipotesi alimenta una serie di interrogativi: è bene lasciare? Conveniva aspettare? A me sembra che la minaccia del Daesh sia diminuita rispetto agli anni 2013-2016. La situazione è meno pericolosa e meno accentuata in manifestazioni forti. Chiaramente, vanno anche fatte valutazioni relative alle esigenze dei Paesi in oggetto, così come sulle possibilità di mantenere contingenti tanto lontani dall’Italia. Ad ogni modo, siamo intervenuti in Iraq nel momento più duro della lotta all’Isis, e credo sia normale pensare di rientrare e di ridurre le aliquote quando l’esigenza si riduce.

Come avviene il ritiro di un contingente? È una cosa che può essere realizzata nel giro di qualche settimana?

Il rientro di un contingente da un dispiegamento internazionale è un’operazione estremamente delicata e complessa. Ci sono prima di tutto gli aspetti operativi, quelli più immediatamente evidenti, legati al fatto che si sta lasciando qualcosa che prima si presidiava. Poi, ci sono gli aspetti logistici, anch’essi di assoluto rilievo e di grande difficoltà. Soprattutto, si devono considerare i problemi di sicurezza. Non si possono lasciare intere aree senza aver pianificato e controllato il rientro. Occorre evitare che da una fase di ripiegamento normale e dovuto si passi a una situazione difficile.

Sulla missione in Iraq, così come per quella in Afghanistan, in molti si sono chiesti perché siamo andati così lontani dai confini nazionali. Cosa risponderebbe?

Va fatta prima di tutto una considerazione: quello che è avvenuto nei Paesi che ha citato ha avuto ripercussioni dirette sulla nostra vita e su quella di tutte le democrazie occidentali. Dato che apparteniamo a una comunità internazionale che ci tiene a vivere in sicurezza, è chiaro che bisogna affrontare degli impegni del genere, anche se lontani.

La decisione di ridurre gli impegni in Afghanistan e Iraq si lega all’intenzione di orientare la proiezione militare italiana verso altre aree? Penso in particolare alla missione di più recente introduzione, quella in Niger.

Certo. Credo che i due aspetti siano tra loro strettamente legati. Se la presenza in un’area, comunque importante, diventa meno essenziale, forse può essere opportuno e conveniente riprendere le aliquote che si possono recuperare per dirigerle verso altri punti sensibili, come quello da lei menzionato. Purtroppo, la realtà contemporanea ci pone di fronte diverse situazioni complesse e sempre diverse.

Pensa anche ai Balcani?

I Balcani sono sempre stati una spina nel fianco della sicurezza europea. Ricorderà quando venivano menzionati come “la polveriera d’Europa”. Certo, da allora sono stati fatti passi in avanti rilevanti. Eppure, è difficile superare centinaia e centinaia di anni di odio e vessazioni da una parte e dall’altra. Comunque, qualcosa di positivo si sta muovendo, come dimostrano le aspirazioni di alcuni Paesi della regione di entrare in Europa.

Nel caso di un ridimensionamento generale degli impegni militari all’estero, non c’è il rischio di perdere quella credibilità internazionale e quel peso politico che essi ci hanno garantito?

Sicuramente abbiamo espresso un impegno molto forte. Per tanti anni siamo stati grandemente presenti in tanti teatri operativi. Vorrei solo ricordare che per diverso tempo l’Italia è stato tra i maggiori contributori alle missioni Nato, ma anche il Paese occidentale maggiormente fornitore delle operazioni dell’Onu. Inoltre, ci siamo assolutamente contraddistinti con le capacità che le nostre donne e i nostri uomini hanno messo in evidenza, ad esempio sul fronte dell’addestramento, su cui i Carabinieri si sono fatti valere ovunque. Sono elementi che hanno portato credito alla nostra Nazione. Ora, l’impegno che nel 2005 coinvolgeva 12mila uomini è molto ridotto. Eppure, non credo che tale riduzione si rifletta in un ridimensionamento del credito nei confronti dell’Italia. Ritengo che il nostro Paese riesca a mantenere un’immagine molto positiva di sé con le diverse operazioni fuori area.



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