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La crescita Usa ha un problema: il commercio estero

Il dato, ancora provvisorio, sulla crescita Usa nel terzo trimestre ci comunica parecchie informazioni che consentono di farsi un’idea chiara di come stia evolvendo l’economia americana nel suo secondo anno di epoca Trump. Dato lusinghiero, peraltro, visto che il 3,5% di pil registrato in più, conferma, anche se al ribasso, l’ottimo +4,2 del secondo trimestre: un momento espansivo che non si registrava da parecchi trimestri.

Al di là del numeretto, è come si ottiene questo risultato che è interessante. La nota dell’ufficio statistico governativo lo spiega con chiarezza. “L’incremento riflette il contributo positivo dal consumo privato (PCE. personal consumption expenditures), gli investimenti in scorte, la spesa pubblica del governo e degli enti locali e gli investimenti fissi non residenziali”. Tale contributo è stato contrastato dal dato negativo arrivato dal commercio estero e dagli investimenti fissi residenziali. L’import, in particolare, “è aumentato”, a differenza di quanto era accaduto nel secondo trimestre, che era diminuito anche se di poco. Ma ciò che è interessante rilevare è che “la decelerazione nel pil reale nel terzo trimestre riflette un calo delle esportazioni e una decelerazione negli investimenti fissi non residenziali”. La tabella sotto consente di avere una visione ancor più nitida delle varie componenti che hanno determinato il risultato del terzo trimestre.

Da sottolineare innanzitutto il robusto aumento della spesa per consumi, che arriva al 4%. Per comprenderne l’importanza bisogna osservare quest’altra tabella, dove si esamina il contributo delle singole voci alla crescita del Pil. La PCE, noterete, vale da sola 2,69 punti di crescita del pil.

Degno di nota è anche il robusto aumento della spesa del governo, e in particolare di quella per la difesa, cresciuta del 4,6% per un contributo netto sul pil pari però ad appena 0,17 punti. Complessivamente l’aumento della spesa pubblica ha generato un contributo netto sull’aumento del pil di 0,56 punti, che è riuscita solo in parte a compensare il robusto contributo negativo offerto dal commercio estero. L’export netto, infatti, ha fatto diminuire la crescita per 1,78 punti, in conseguenza del robusto aumento dell’import e della marcata diminuzione dell’export.

Questi pochi dati consentono di arrivare a una prima conclusione. Finora la strategia Trump, articolata fra riforma fiscale e guerra commerciale, ha dato un bel calcione all’economia Usa, ma bisognerà vedere se l’effetto di breve termine sarà capace di evitare l’effetto recessivo che arriva dall’andamento del commercio. Gli Usa infatti devono fare i conti con il tipo di struttura produttiva di cui dispongono e soprattutto delle consuetudini che hanno contribuito nel tempo a creare.

Per avere un’idea, seppure approssimativa, di quanto sia complessa la catena delle relazioni che lega la crescita Usa al commercio internazionale, si può scorrere una ricostruzione pubblicata di recente dalla Fed di S.Louis, dove si osserva che “quando c’è una recessione il deficit tende a diminuire, o, se andiamo nel passato, il surplus tende ad aumentare”.

I motivi ovviamente sono diversi. Ad esempio, “quando l’economia va bene, i produttori hanno bisogno di più beni intermedi e l’import è per lo più costituito da beni intermedi. La tempo stesso le famiglie consumano di più e una quota di tale consumo è costituita da importazioni”. L’export invece dipende dalla situazione internazionale e solo indirettamente dall’attività interna. Detto in altre parole, lo stimolo fiscale di Trump fa bene al’economia Usa, ma anche alle importazioni, mentre non è detto che farà bene al commercio estero netto. Anzi, finora sembra il contrario. In sostanza, crescendo gli Usa importano di più ma non è detto che esportino di più, specie se i dazi fanno salire i prezzi interni. Alla fine dello stimolo fiscale l’economia potrebbe rallentare, a fronte di un robusto aumento dei debiti. E anche questo ha un costo.

Twitter: @maitre_a_panZer


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