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Lo stanco rito del venerdì e il diritto alla libertà di movimento

venerdì

Puntuale, molto di più della media dei nostri mezzi pubblici, ecco lo sciopero pre-week end. Come sempre più spesso accade, il copyright è di una galassia di sigle minori – forse dovremmo dire misconosciute – testimonianza vivente del fallimento della rappresentanza sindacale, al giorno d’oggi. Mandano in tilt le nostre città, costringono milioni di italiani a disagi più o meno gravi, non ottenendo nulla, se si esclude l’autocertificazione della loro esistenza. Tanto da far crescere il sospetto che proprio questa sia l’unica, reale motivazione.

È francamente imbarazzante dover assistere a questo ripetersi senza fine di proteste sempre uguali, sulla pelle dei cittadini. Micro sigle, rappresentanti di loro stesse e poco più, incapaci di fare arrivare al pubblico il senso e la sostanza delle loro rivendicazioni. Può apparire brutale, ma basta concedersi un giro fra la gente e ascoltarla. Nessuno ha la più pallida idea del motivo per cui si protesti e per cui centinaia di migliaia di persone debbano inventarsi un modo, per raggiungere lavoro, scuola o casa. Il diritto basilare alla libertà di movimento dei cittadini viene così semplicemente ignorato e brutalizzato. Come automi, si ascolta il solito annuncio dello sciopero del venerdì, ci si organizza di conseguenza, si fa coda in macchina, si intasano le città e si aspetta la prossima volta.

Unica, granitica certezza: anche questa agitazione passerà, senza che nulla cambi. Nessuno domani ricorderà le sigle che l’hanno proclamata, i diritti dei cittadini continueranno ad essere ignorati, continueremo ad avere un sindacato sclerotizzato, prigioniero di tattiche e slogan novecenteschi.

Potrebbe andar peggio, potrebbe piovere, diceva il grande Marty Feldman, in Frankenstein Junior. E oggi piove pure, in molte regioni italiane.

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