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Con le Midterms alle porte, Trump cresce in un’America divisa

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Un uomo è entrato sabato mattina nella sinagoga di Pittsburgh, in Pennsylvania, e ha aperto il fuoco tra la folla al grido di “Tutti gli ebrei devono morire”. Era Shabbat, e a celebrare il giorno del riposo c’erano tante persone. Il killer aveva un Ar-15, l’arma amata dagli stragisti americani perché è la versione commerciale del fucile d’assalto dell’esercito Usa, si maneggia bene e in vendita si trova un sistema che lo fa diventare automatico e devastante (lo usò anche l’attentatore di Las Vegas).

Risultato: undici morti e sei feriti. L’aggressore era un fanatico anti-semita, che su Gab — social network in cui gli ambienti dell’estrema destra sguazzano perché certi contenuti, quelli razzisti per esempio, non vengono censurati — dava credito ai complotti più sgangherati del genere anti-ebraico. Tra questi quelli su George Soros, finanziere filantropo ebreo che secondo alcuni starebbe finanziando un piano di sostituzione razziale in giro per il mondo: tesi che ultimamente stanno salendo di livello anche perché corrono sulle bocche di leader di Stato. Per esempio, a giugno in Senato il vicepremier italiano Matteo Salvini disse di avere dubbi quando vede i progetti filantropici della Open Society Foundation di Soros dietro a ong che soccorrono i migranti, e una mesata fa si è messo in prima linea quando l’ispiratore trumpiano Steve Bannon ha parlato del suo progetto per creare una fondazione politica in Europa, The Movement, anche per combattere l’influenza di Soros; a settembre il presidente americano Donald Trump ha detto che le donne che protestavano contro la nomina di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema (c’erano accuse di vecchie violenze sessuali contro di lui) erano pagate da Soros.

Soros è anche stato vittima di una delle Pipe Bomb inviate i giorni scorsi a figure che il presidente Trump e l’immaginario politico costruito dai suoi sostenitori più fanatici considerano dei “nemici” — i Clinton, gli Obama, altre personalità del Partito Democratico, la  Cnn. Due giorni fa con l’accusa di aver compiuto gli attacchi — 13 in tutto, ma nessun ordigno è esploso — è stato arrestato un personaggio controverso: ha 56 anni, vive in Florida, è descritto come un antisociale e solitario; con precedenti penali; dal 2015 i suoi social network sono diventati zeppi di rancore, insulti e minacce ai politici democratici come a personaggi pubblici tipo Oprah Winfrey, o Soros, molti articoli condivisi dal sito di Bannon, Breitbart News, una foto col cappellino rosso trumpiano Maga; e un furgone, in cui viveva, tutto tappezzato di immagini legate a un certo tipo di narrazione politica che si spiega meglio, appunto, descrivendone un paio di quelle immagini: in una c’è Trump con in mano una bandiera americana sul dorso di un carro armato (sembra una riproduzione rozza e bambinesca della Marianne di Delacroix, per rendere l’idea); ce n’è un’altra con Hillary Clinton al centro del mirino di un cecchino.

Queste due notizie si inseriscono nel contesto, lo descrivono per certi versi nel suo aspetto parossistico: negli Stati Uniti c’è un clima piuttosto avvelenato in cui le divisioni tra repubblicani e democratici sono tali che si faticano a trovare terreni comuni. E tra una manciata di giorni, il 6 novembre, ci sono le elezioni di metà mandato, da cui uscirà un Congresso diverso e in cui Trump cerca conferme elettorali. Il risultato è molto importante perché è considerato il test verso il futuro: nel 2020 il presidente cercherà il secondo giro alla Casa Bianca, e sarà importante ripresentarsi al partito senza il peso di aver perso anche solo una delle camere (Senato e Camera sono attualmente in mano ai Rep), anche perché averne il controllo permetterà una più efficace azione di governo, visto che le leggi le fanno i congressisti.

Finora i sondaggi per la maggioranza nei 435 seggi alla Camera danno per più probabile la vittoria dei democratici, che sfruttano una scarsa piattaforma politica ma un’ottima (quanto ovvia) ondata di mobilitazione — la chiamano la Blue Wave, l’onda blu. Ma le cose un po’ stanno cambiando. Per esempio, un sondaggio della scuola Schar di Arlington (programma di scienze politiche dell’università George Mason) che lavora sulle Midterms per il Washington Post dice che la probabilità sul successo alla Camera dei Dem s’è ridotta, al punto che i due partiti potrebbero giocarsela: i democratici per ottenere la maggioranza devono conquistare almeno 22 seggi in più e confermarsi nei 193 che già controllano, e questo secondo le previsioni avverrà solo se i Dem conquisteranno su base nazionale 9-11 punti percentuali in più nel totale dei voti. Questo genere di vittoria dei democratici alla camera bassa è data certa all’84 per cento secondo i dati aggregati di FiveThirtyEight, ma mentre finora quel gap è stato sopra al dieci, ultimamente è anche andato all’8 in qualche rilevazione (attenzione, sono sondaggi e indicano probabilità, non c’è niente di definitivo). Al Senato pare che invece non dovrebbe esserci partita, i repubblicani terranno il controllo, anche perché alcuni senatori democratici eletti nel 2012 si vanno a ricandidare in stato molto diversi da quelli che avevano conquistato e dove Trump alle presidenziali ha sbancato (West Virginia, North Dakota, Indiana, Missouri, Montana, per esempio).

Per gli analisti politici americani, il momento che ha iniziato a spostare un po’ gli equilibri è stata la conferma di Kavanaugh, proprio quella contro cui Trump diceva che era Soros a organizzare le proteste. Gli elettori repubblicani, che prima sembravano non volersi muovere in blocco per andare a votare (sull’onda opposta ci punta invece la mobilitazione messa in atto dai democratici anche attraverso candidati che spingono posizioni diametrali a quelle trumpiane), si sono raggruppati, hanno visto le polemiche attorno alla nomina come una chiamata alle armi, e nel presidente il trascinatore, l’animale elettorale che anima i rally con grinta e uscite identiche a quelle che l’hanno fatto vincere nel 2016.

Secondo un altro sondaggio, raccolto da NPR/PBS Newshour/Marist poll, due terzi degli elettori considerano Trump il fattore che li porterà a votare, senza specificare se contro o a favore: sarà “una votazione di carattere nazionale, un referendum su Trump”, spiega  Lee Miringoff, il direttore del Marist Institute for Public Opinion. Lo stesso dicono gli intervistati da Usa Today e Suffolk University: Trump è determinante, e ultimamente sta crescendo. Chissà cosa succederà dopo quei due fatti di cronaca? Trump ha accusato i media per aver creato il clima ostile che ha portato a derive come quelle dell’uomo della Florida (anche se le bombe non erano indirizzate a suoi collaboratori, ma ai suoi nemici).

Per il momento sono più quelli interessati a votare per manifestare il proprio dissenso, ma coloro che intendono dimostrargli sostegno crescono, e c’è da considerare che in generale gli elettori repubblicani sono abbastanza soddisfatti del presidente, che è molto aiutato dal tiro con cui l’economia americana continua a crescere, con dati che indicano che la disoccupazione è praticamente assente.

Ci sono dieci giorni e una settantina di collegi per la Camera dall’esito incerto — il New York Times cita i dati elaborati da Michael McDonald, professore di Scienze politiche all’università della Florida, secondo cui l’affluenza sarà molto alta (forse da record). Il giorno prima della elezioni Trump ha programmato un grande discorso sull’immigrazione, che abbinato alla crisi live della carovana dei migranti dal sud, su cui la propaganda trumpiana spinge molto (l’attentatore di Pittsburgh, per esempio, ne parlava sui suoi profili social), potrebbe essere un altro passaggio determinante.

 

 

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