Ci vuole un grande progetto a favore della gestione delle acque che tenga conto delle nuove tecnologie e che coinvolga tutte le parti in un sistema virtuoso di gestione industriale. È l’appello che ho lanciato ieri nel corso del convegno su “L’acqua ed il futuro del servizio idrico integrato”, tenuto ad Ercolano presso l’Auditorium del Museo Archeologico Virtuale.
CHI HA PARTECIPATO AL CONVEGNO DI ERCOLANO
Ai lavori hanno preso parte, tra gli altri, Giovanni Sgambati, segretario regionale della Uil Campania e Massimiliano Placido, segretario nazionale del sindacato dell’Energia, della Chimica e del Tessile. Inoltre, hanno preso la parola nel dibattito moderato da Simona Brandolini del Corriere del Mezzogiorno: Giovanni Papaleo, direttore industriale idrico dell’Acea SpA; Francesca Portincasa, direttrice reti ed impianti dell’Acquedotto pugliese; Giordano Colarullo, Direttore generale Utilitalia; Claudio De Vincenti, economista ed ex ministro. I saluti istituzionali sono stati portati dal sindaco di Ercolano, Ciro Bonajuto; da Fulvio Bonaticola, assessore regionale e da Claudio Cosentino, ad della Gori Spa, l’azienda che fornisce l’acqua alla stessa Ercolano.
IL RUOLO DEGLI ENTI LOCALI
Noi riteniamo che il ruolo degli enti locali debba essere ricondotto a quello di indirizzo e controllo, spezzando quella spirale determinata dalla gestione politica che guarda al mero consenso, attraverso una gestione diretta, o mediante l’intervento diretto sugli operatori. A nostro giudizio è solo attraverso una gestione industriale dei processi e delle attività, nell’ottica della gestione efficiente e produttiva, che si può garantire il prevalere dell’interesse collettivo su quello di pochi. Non ci convince l’idea di un ritorno al passato, dove il proliferare di tante aziende speciali e consigli di amministrazione gestiti dalla politica locale potrebbero favorire una conduzione clientelare data la mancanza di idonee procedure competitive. Ci vogliono le aggregazioni societarie, occorre migliorare servizi ed investimenti infrastrutturali, è necessario basarsi sull’innovazione tecnologica digitale e sulla manutenzione preventiva della rete. In tal senso ci vuole un patto tra governo, imprese e sindacato per emancipare il sistema idrico integrato del Paese.
LA NORMATIVA VIGENTE
È bene ricordare che nel nostro Paese, prima la legge Galli L.36 05/01/1996, poi il Dl. n. 152 del 03/04/2006 (che ha, nel rispetto delle norme comunitarie, ridefinito gli indirizzi di efficienza ed economicità di gestione) rappresentano, insieme alla riforma dei servizi pubblici locali (il Decreto Ronchi, ndr), l’evoluzione normativa nazionale. Queste norme definiscono e regolano appunto il nuovo metodo tariffario per il periodo 2016-2019 del settore idrico in Italia. Inoltre, il 26 luglio scorso è stato sottoscritto “L’Avviso comune fra Confservizi e Cgil, Cisl e Uil sulle politiche industriali dei servizi pubblici locali” nel quale si riaffermano i legami fra i temi della gestione industriale, aggregazioni, investimenti e crescita delle economie territoriali. Serve determinare un sistema dove l’investimento sulle infrastrutture oltre che dalla tariffa venga premiato con gradualità ma con certezza, attraendo capitali privati e pubblici e generando ricchezza. Il volume di investimenti necessario a riportare lo stato della rete idrica italiana ai livelli europei è infatti tale da non poter essere soddisfatto senza l’intervento pubblico, pena la realizzazione in tempi biblici del risanamento. Ma sicuramente non può ripiombare in una dimensione di fiscalità generale.
I DATI DELL’AUTORITY E DI UTILITALIA
Secondo i dati dell’Autorità, tra il 2016-2019 sono stati già programmati dai gestori 12,7 miliardi di euro d’investimenti. Sempre secondo l’Autorità, ce ne vorrebbero almeno altri 25 di miliardi per mettersi in regola con gli standard e gli adempimenti europei. Il diritto universale dell’acqua è sacro ed inviolabile. L’acqua viene utilizzata per molteplici scopi, rivestendo un ruolo centrale in tutte le attività che ne fanno uso, diretto o indiretto. Negli ultimi decenni i consumi mondiali di acqua sono aumentati di quasi dieci volte: circa il 70% dell’acqua consumata sulla Terra è impiegata per l’uso agricolo, il 20% per l’industria, il 10% per gli usi domestici. In Italia il settore agricolo assorbe il 60% dell’intera domanda di acqua del Paese, seguito dal settore industriale ed energetico con il 25% e dagli usi civili per il 15%. I dati attuali sulle risorse idriche disponibili, sulla carenza idrica, sulla siccità e sull’indice di sfruttamento idrico, unitamente alle previsioni sul cambiamento climatico ci dicono chiaramente che economizzare il consumo e migliorarne la gestione è un obbligo. Solo l’un percento della risorsa idrica nazionale è direttamente accessibile al consumo e lo stress delle riserve disponibili in Italia (ovvero il rapporto fra quantità estratte e risorse disponibili) ha superato il valore ritenuto di soglia rispetto all’uso insostenibile nel medio periodo.
L’aumento dei fenomeni di desertificazione e intrusione di acque salate nelle falde presenti in aree costiere è in aumento, come è in aumento il consumo dovuto ai fenomeni di crescita del turismo, in particolare nel Mezzogiorno, mentre in tutte le aree del Paese (compresi i quattro bacini idrografici italiani Po, Adige, Arno e Tevere) le portate medie annue sono precipitate del quaranta per cento rispetto alla media degli ultimi trenta anni. Si stimano in 100 miliardi di euro i costi derivati da fenomeni di siccità registrati in Europa negli ultimi tre anni e l’undici per cento della popolazione europea è interessato a fenomeni di carenza idrica (in Italia una famiglia su dieci ha irregolarità nel servizio di erogazione). Altrettanto allarmanti i dati sullo spreco, in EU si passa dal 20 per cento dei Paese più virtuosi sino al nostro 40 per cento medio. Lo spreco suddetto è dovuto fondamentalmente alle perdite sulle reti e agli eccessivi consumi derivanti dalla mancata installazione delle tecnologie disponibili per la riduzione degli stessi. Uno studio promosso da Utilitalia lo scorso anno condotto su 54 gestori e una popolazione di 31 milioni di abitanti, conferma un dato noto, ovvero la vetustà degli acquedotti del nostro Paese. A fronte di ciò gli investimenti programmati nel periodo 2014-2017, si attestano su un valore medio nazionale di soli 32 euro per abitante all’anno, molto inferiori a quelli di tutti i Paesi europei. In Italia il 60% delle infrastrutture è stato messo in posa oltre 30 anni fa (percentuale che sale al 70% nei grandi centri urbani) e il 25% di queste supera i 50 anni (arrivando al 40% nei grandi centri urbani). La fatiscenza degli acquedotti causa, al centro e al sud, una percentuale di perdite nella rete di rispettivamente 46% e 45%: quasi la metà. Una percentuale che invece si abbassa molto al nord, attestandosi al 26%.
Ecco perché occorre cambiare il paradigma, rispetto a come è ora, della gestione del sistema idrico. La quarta rivoluzione industriale ci impone un governo del cambiamento condiviso e gestito congiuntamente. Dobbiamo essere capaci di guidare questa trasformazione.
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