In questi mesi, successivi alla sconfitta elettorale del 4 marzo, si è molto discusso, tra gli sconfitti, da dove ripartire. Dal basso (gli iscritti, il territorio, le periferie, ecc.); da sinistra (gli ultimi, i lavoratori, gli emarginati, ecc.). Non ne siamo venuti a capo. La prima vera risposta è arrivata solo domenica scorsa, a sei mesi dal voto, con la manifestazione nazionale del Partito democratico, il cui successo non è dipeso solo dagli aspetti organizzativi (che, fortunatamente, ancora sussistono), ma dalla caratterizzazione aperta del messaggio di cui il Pd si è fatto interprete e portatore, ma non esclusivo detentore, liberando la voglia di esserci di una parte importante di cittadini.
Molti hanno evidenziato il ritardo con cui ci si è mossi. È vero. Ma non deve stupire che ci siano stati lunghi mesi di difficile ripartenza: la batosta è stata seria e le ferite sono ancora aperte, provocando, in molti momenti, un approccio consolatorio. Come se, il 4 marzo, fosse capitata una disgrazia; un fatto imprevisto e imponderabile che travalicava le responsabilità politiche. Al contrario, se, come ha detto Martina nel suo discorso conclusivo, “abbiamo capito la lezione”, serve un’analisi – necessariamente spietata – dei cambiamenti sociali intervenuti in questi anni e delle conseguenze politiche che ciò comporta. Sia in ordine alle scelte, ma, forse soprattutto, in ordine alla loro gerarchia. È sotto accusa il modello economico sociale.
Fin da subito, nel 2008, avevamo intuito che, se la globalizzazione aveva aumentato a dismisura la domanda di benessere (riducendo la povertà assoluta, ma aumentando le disuguaglianze), la crisi, esplosa allora con tanta virulenza, metteva in evidenza come crescita non è infinita e che bisognava uscirne con un nuovo modello di sviluppo. Ebbene, non possiamo negare che la capacità dimostrata di superare il buco nero della crisi – ed evitare, anche con sacrifici e scelte sbagliate, il rischio Grecia – non ha avuto la stessa forza nello stabilire un nuovo equilibrio tra Stato e mercato, tra meriti e bisogni, tra accumulazione e redistribuzione. Anche da qui bisogna ripartire, superando un approccio… continuista.
Servono idee nuove. Ma, anche, una squadra nuova, che segni discontinuità. Lo stesso cambio Renzi-Martina era apparso, almeno fino a Piazza del Popolo, più formale che sostanziale. A questo serve il congresso che va celebrato al più presto (siamo già in serio ritardo) senza pretestuosi rinvii!
Solo così potremo capitalizzare l’ultima bella domenica di settembre che è servita a dare sicurezza, non solo al popolo del Pd, ma a tutti quegli italiani che non apprezzano quanto sta accadendo. Anche prendendo per buoni i sondaggi, si tratta, pur sempre, del 40%! Ma, se parliamo di Europa, quasi i due terzi non è favorevole ad uscire dall’Unione. Poche timidezze dunque. Andare controcorrente non è detto che comporti un’ulteriore erosione dei consensi; potrebbe, al contrario, incrociare altri malumori e altre domande che non si riconoscono nello spettacolo che sta andando in scena nella politica italiana.