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Siamo pronti ad affrontare la recessione prossima ventura?

Italia, angi patria cyber, europee

Formiche del 9 ottobre ha analizzato come una nuova recessione sia alle porte. L’ultimo fascicolo di The Economist ha dedicato al tema la copertina e un servizio speciale. L’argomento era tra quelli dominanti alla recente assemblea del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, il cui Policy Reasearch Working Paper No.123899 Global Trade: Slowdown, Factors, and Policies – certamente disponibile al ministero dell’Economia e delle Finanze -, analizza in dettaglio come il forte rallentamento del commercio internazionale sia premonitore di una nuova crisi. In Italia se ne parla poco anche perché una recessione mondiale metterebbe seriamente a rischio i programmi del “governo del cambiamento” che ipotizzano una crescita nel 2019, anche a ragione dell’impulso che l’economia reale avrebbe dal disavanzo di bilancio, un impulso che, secondo il Nadef (nota aggiuntiva al documento di economia e finanza), porterebbe anche ad una riduzione del rapporto tra stock di debito e Pil.

Mentre nelle istituzioni e nei centri di ricerca internazionali si dibatte se la nuova recessione sarà più o meno pesante di quella iniziata nel 2008, credo ci si debba chiedere se l’economia mondiale è pronta ad affrontarla. Senza dubbio, sotto il profilo tecnico, la strumentazione messa a punto nel 2008-2012 ha fornito numerosi elementi, parte dei quali (soprattutto in materia monetaria) non possono essere utilizzati perché i bilanci delle banche centrali si sono troppo gonfiati; a titolo indicativo si pensi che quello dell’autorità monetaria americana, la Fed, è ormai pari al 20% del Pil mondiale. Gli stessi stimoli di bilancio devono essere impiegati con cautela a ragione dell’aumento del debito pubblico verificatosi in numerosi Paesi durante la crisi iniziata nel 2008 e, di conseguenza, il rischio che diminuisca la fiducia dei risparmiatori nei titoli di Stato.

Il nodo centrale, però, è politico. Alla crisi del 2008, governi e banche centrali risposero con un altissimo grado di coordinamento e collaborazione. Ricordo una colazione, in un club privato, in cui Pier Carlo Padoan, allora vice segretario generale dell’Ocse, illustrava dettagliatamente questo coordinamento e questa collaborazione e come il Segretario al Tesoro avesse esaminato, in dettaglio, con i colleghi europei e con le autorità giapponesi il Tarp (Troubles assets relief program), la principale misura messa in campo per tentare di rimettere in sesto parte del sistema bancario.

Un analogo grado di coordinamento e cooperazione è possibile adesso, negli anni della American First negli Usa e del sovranismo in Europa? La Casa Bianca non solo ha la consapevolezza che in questi ultimi anni (grazie alle riduzioni di imposta e al deprezzamento del dollaro) gli Usa hanno tirato la carretta dell’economia mondiale. È, poi, a capo di una crociata commerciale contro la Cina (in cui ha ingaggiato già Messico e Canada). Se l’Unione Europea non entrerà nella coalizione anti-Pechino, è difficile che Washington sarà disposta a dare una mano.

In Europa, nel 2008 il quadro era abbastanza coeso anche a ragione dell’entusiasmo dei nuovi venuti dall’Europa centrale ed orientale e del Trattato di Lisbona del 2007, che sembrava un tassello importante verso una Costituzione europea. Adesso, alla Brexit si somma l’offensiva dei sovranisti. Messi insieme sono numerosi e sembrano in crescita. Lo svedese Jimmie Akesson, l’ungherese Victor Orbán, l’austriaco Heinz-Christian Strache del Freiheitliche Partei Österreichs, la tedesca di Alternative für Deutschland Alice Weidel, il Pvv dell’olandese Geert Wilders, il Front National di Marine Le Pen, il Dansk Folkeparti di Copenaghen, il Gruppo di Visegrád,  minacciano di svuotare lo scrigno di quell’intesa nata negli anni lontani della ricostruzione sotto gli auspici di una riconciliazione che via via si è trasformata in una poderosa realtà economica e insieme in una macchina di regole inesorabili quanto indispensabili. Potranno essere determinanti del Parlamento Europeo che verrà eletto nel maggio 2019: un documento, per ora ancora riservato, sostiene che i deputati sovranisti potranno avere 210 seggi su 751. Ed essere quindi determinanti pur senza avere la maggioranza. In ogni caso, è indubbiamente arduo pensare che nell’Unione, in caso di nuova crisi, gli Stati del nord siano pronti a venire in aiuto a quelli a bassa crescita e alto debito del sud.

Occorre poi chiedersi se nell’interazione con le istituzioni europee ed internazionali l’attuale ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria, ha lo stesso peso di coloro che lo hanno preceduto negli anni della precedente crisi (Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Tommaso Padoa Schioppa, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni). È noto che in patria non è riuscito nell’obiettivo di non fare superare l’1,6% del Pil al deficit programmato per il 2019, per ben due volte gli è stato tolto il microfono mentre voleva rispondere a domande di giornalisti e deputati e mentre era all’Assemblea del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, il ministro dello Sviluppo Economico, senza previa consultazione con il collega all’estero, ha presentato un piano che impegna il ministero dell’Economia e delle Finanze a diventare azionista di Alitalia.

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