La Legge di bilancio non è ancora arrivata in Parlamento e già è stata bocciata dalla Commissione europea. Nonostante questo, il governo conferma le sue scelte. Lo spread e le borse peggiorano e la tensione aumenta.
Viene in mente l’autunno del 2011, quando cadde Berlusconi. Sono molte le analogie (lo spread; il rating; la fuga dei capitali; la lettera, allora della Bce, oggi della Commissione…). Ma le differenze superano le analogie.
Allora il nostro Paese era in recessione, oggi il governo gialloverde ha ereditato un’economia che cresce, modestamente, ma costantemente. Il gap con l’eurozona è, però, rilevante e, se la crescita non viene sostenuta, si bruciano rapidamente gli sforzi di questi anni.
Allora, al quarto anno di legislatura del centrodestra, il consenso del governo era logorato; oggi, a pochi mesi dal voto, permane la luna di miele. Il che dà ai leader di governo una sicurezza mal spesa in un fanatismo ideologico, un linguaggio violento e una disinvoltura sorprendente. I nostri guai economici, che stanno arrivando, non dipendono, quindi, da come va (o può andare) l’economia, ma dalla politica.
Ma veniamo al merito. Ciò che la Commissione, la Banca d’Italia, l’Ufficio parlamentare di bilancio, le compagnie di rating contestano è, innanzitutto, il singolo dato del deficit eccessivo. A luglio, nelle raccomandazioni al nostro Paese sul bilancio programmatico 2019, il Consiglio europeo aveva invitato l’Italia a prevedere un calo strutturale dello 0,6% del Pil, mentre il governo M5S-Lega prevede un aumento dello 0,8, ossia + 1,4 % (da qui il “senza precedenti” dichiarato dalla Commissione). Il governo replica che un eccesso di deficit può reggere se… “coperto” da una buona crescita. Anche il debito sarebbe gestibile se il deficit calasse e il Pil crescesse.
Il punto, però, è che tutto ciò non è dato. Anzi, qui si sommano l’alto deficit, ben oltre gli impegni presi, si badi bene, dallo stesso governo del cambiamento che a luglio era già in carica); l’alto debito, che non può scendere e una crescita all’1,5%, chiaramente sovrastimata. Innanzitutto, perché il quadro macroeconomico globale rallenta nel 2019. Ma questo era già chiaro prima del voto (si veda il Def Gentiloni/Padoan) e avrebbe consigliato prudenza. E, non dimentichiamo, che le conseguenze della guerra dei dazi e l’imminente fine del QE (con i suoi 16 miliardi al mese di acquisto dei titoli di Stato italiani) sono ancora da misurare.
Secondariamente, perché la crescita italiana è comunque inferiore a quella della eurozona (lo stesso Fmi stima circa l’1% di crescita nel 2019, dato rivisto peraltro al ribasso). Ma, soprattutto, perché le misure principali prospettate non sono orientate prioritariamente alla crescita, perché sono di natura prevalentemente assistenziale: assistenza sociale (reddito e pensioni) e assistenza… fiscale (il condono).
In sostanza, ciò che viene proposta è una generale deresponsabilizzazione individuale dei cittadini. Con il reddito di cittadinanza verso il lavoro; con il condono verso lo Stato e la comunità; con le pensioni verso il futuro dei giovani. Sia chiaro: la povertà è un problema e il sostegno a chi è in difficoltà un dovere. Il Rei è stato un buono inizio e ha posto le premesse per indirizzare le scelte future, senza la necessità di cambiare nome e iniziare ogni volta da zero. Oggi, invece, lo si vuole mettere in discussione con l’introduzione del reddito di cittadinanza. Ma la risposta che manca è il lavoro. Le tasse sono troppe, ma la risposta non è il condono.
La legge Fornero affronta la straordinaria crescita della attesa di vita, ma è troppo rigida. La risposta è la flessibilità, non l’aggravio dei conti pubblici, già molto deteriorati.
La ricetta del governo è tutta fondata sulla passività del cittadino verso la comunità e lo Stato. A questa impostazione si aggiungono delle aggravanti, che producono risparmi e coperture, ma incidono negativamente sulla crescita. In particolare, l’inasprimento su banche e assicurazioni, sulla deducibilità delle svalutazioni (dimenticando che Mps è pubblica), e sulle imprese, sia per il differimento delle deduzioni e svalutazione dei crediti ai fini Irap e Ires sia per l’abolizione dell’Iri e dell’Ace.
La conseguenza di tutto ciò è la inaffidabilità. In primis, del governo ma, visto il consenso ampio di cui gode, anche del sistema-Paese. L’inaffidabilità provoca la fuga dei capitali (- 17,4 miliardi da agosto, – 66 da maggio). All’inaffidabilità consegue l’isolamento. Il rischio è così forte che persino la vecchia volpe di Steve Bannon dice che devono cambiare la manovra. Ovviamente, Lega e 5 Stelle non hanno alcuna intenzione di correggere la manovra pronti a sfruttare lo scontro con Bruxelles in chiave elettorale, in vista delle europee di maggio. Ma questo esercizio sarà molto logorante per loro, ma soprattutto per il Paese, che pagherà economicamente e politicamente questa instabile stabilità.