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Statalizzazioni. Per battere il populismo, è meglio cercare altrove. Parola di Debenedetti

Di Franco Debenedetti

Che si tratti di Bekaert perché delocalizza la fabbrica o di Autostrade perché le crollano i ponti, la prima reazione dei gialloverdi e del M5S in particolare è quella di mettere lo Stato al posto dei privati: una pulsione sottopelle che aspetta solo un fatto eclatante per trasformarsi in bubbone. Ma il tentativo di vederlo come un altro episodio della lotta del populismo statalista contro le élite privatizzatrici è fuori luogo: queste in Italia non ci sono state in passato, e ancora oggi sono sostanzialmente marginali.

Non c’è una rivolta del Lumpenproletariat contro le élite liberiste: quelle, se sono esistite, non sono mai state egemoni. È vero, nel breve arco di cinque anni, dall’avere la presenza dello Stato più grande che in qualsiasi altra economia occidentale, siamo passati a vincere l’Oscar delle privatizzazioni. Ma rimanendo “liberisti per disperazione”, come diceva Donato Menichella: dall’uscita dal Sistema monetario europeo (Sme) nel 1992, all’entrata nell’euro nel 1995, da Amato e Barucci, a Prodi e Ciampi. Sempre sentendo l’Europa come vincolo, non guardando all’Europa come modello. Non l’Europa liberista dell’Atto unico, un’area non (solo) di libero scambio, ma di libertà di impresa, modellata dalla concorrenza e non imbrigliata dai monopoli di Stato, forse il maggior portato della grande ondata liberalizzatrice degli anni 80.

In Italia non c’è stato un Lord Lawson a erigere a principio che the business of government is not the government of business, e non per motivi (solo) di efficienza, ma di “moralità”, politica prima ancora che economica. O meglio: uno sì c’è stato, Luigi Sturzo, ma emarginato in vita e dimenticato dopo. D’altra parte, come poteva essere diversamente? L’egemonia culturale era del Pci, e nella Dc, fin dal congresso del 1949, Mariano Rumor dichiarava che “l’ideale della giustizia sociale legittima l’intervento pubblico per svolgere direttamente l’attività economica”. Perfino quelli che volevano porsi come alternativa, Ernesto Rossi e gli amici del Mondo, in nome della lotta ai monopoli sostennero la creazione del monopolio di Stato dell’energia elettrica.

D’altra parte, nel 1948 c’è stato, come diceva Piero Ostellino, un cambio di regime: si è mandato via il re, ma non si è cambiata la costituzione economica, uno Stato corporativo gestito da una pluralità di partiti. Gli unici che volevano smantellare l’Iri erano i comunisti, che la consideravano una costruzione fascista: nel 1993 i suoi debiti, se consolidati in capo allo Stato, lo avrebbero portato al default. Adesso c’è sempre l’articolo 13, comma 6 della legge 474/1994 che richiede che il Mef invii ai presidenti di Camera e Senato una relazione al Parlamento sulle privatizzazioni: ma ormai da anni si tratta di limature o di spostamenti interni, mentre nessuno osa metter mano allo stock delle 8mila (?) società pubbliche locali.

Dopo D’Alema, che si è rifiutato di ostacolare la privatizzazione di Telecom, sono le “lenzuolate” di Bersani, autentico leader di un partito di massa, il vero, forse l’unico esempio di liberalizzazioni di per sé (e gli perdoneremo per questo alcune scivolate stataliste). Dove sono queste supposte élite che fremono per privatizzare? Sono i Rodotà e Zagrebelsky, per cui l’acqua è bene comune solo se son pubblici i tubi dentro cui scorre? È Franco Bassanini, e il suo sogno della società delle reti? È Matteo Renzi che, avesse avuto i soldi, alla Cdp avrebbe fatto comperare Alitalia, Ilva, Monte Paschi e, di passaggio, qualche banchetta? E che, non avendo i soldi, ha chiesto agli azionisti di Enel di finanziare il suo piano di portare la banda larga dentro le case di tutti gli italiani? È Paolo Gentiloni, che non ha nulla da dire se Cdp interviene nella tenzone tra due azionisti privati di una società quotata, tra l’altro per far pendere la bilancia in favore di un fondo attivista? (E chiedo scusa a chi non è stato citato). Sono queste élite che si scandalizzano se i populisti vogliono accasare Alitalia con Ferrovie e dar vita al ménage à trois con Anas cui vengono conferite Autostrade?

La cartina di tornasole è il giudizio sulla privatizzazione di Telecom. Perché essere riuscito a convincere Bertinotti a cederla tutta, quando non c’era riuscita neppure la Thatcher, è il capolavoro di Ciampi. E poi perché è stata in parte da manuale, in parte un miracolo. Da manuale, perché lo stesso Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, aveva teorizzato l’opportunità che la privatizzazione di un monopolio di Stato passasse attraverso l’offerta “sul mercato di una proprietà contendibile accompagnata da un’offerta a pubblico”; purché ci siano “leggi che permettano al mercato di correggere le scelte iniziali”. Da manuale perché questa correzione si concretizzò nello strumento principe del mercato, un’Opa monstre di cui beneficiarono lautamente gli azionisti terzi.

È un miracolo che l’azienda sia sopravvissuta: a un attacco giudiziario, poi rivelatosi senza fondamento, che provocò un cambio di mano; veti posti dal governo ad alleanze con soci esteri, considerati non graditi, e all’invito esplicito a vendere l’asset più prezioso, la Rete, che determinarono un altro cambio di mano; agli anni di controllo da parte del gotha della finanza italiana al solo scopo di tenere a bada il partner spagnolo; e infine a un periodo caratterizzato da una visione strategica confusa e velleitaria e da una conduzione operativa di straordinaria efficacia.

E quanto ai risultati non ha senso paragonare quelli dell’epoca del monopolio per legge con quelli di oggi, in uno dei mercati più concorrenziali al mondo, vigilato da un’occhiuta autorità. Basta ignorare tutto questo, e la privatizzazione di Telecom diventa “indifendibile”: al suo riparo, le cosiddette élite possono dar corso ai loro segreti istinti anti-mercato. Per battere il populismo, sarà meglio cercare altrove.

Articolo pubblicato sulla rivista Formiche numero 140.


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