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Tecnica, politica e religione. Il dibattito sul libro di Magatti

“Tutta la storia della democrazia è uno sforzo per sfuggire alla statocrazia, alla partitocrazia, alla pretesa della politica di dominare tutto. Tuttavia oggi la vicenda della società tecnica la stiamo vedendo nascere e svilupparsi sotto i nostri occhi, siamo solo all’inizio, e ne avremo a lungo”. È netto il giudizio del sociologo Mauro Magatti, (in foto), docente all’Università del Sacro Cuore di Milano, editorialista del Corsera e autore per Feltrinelli di “Oltre l’infinito: storia della potenza dal sacro alla tecnica”, espresso a conclusione del dibattito organizzato presso la sede della rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica, sul tema: “Religione, politica e tecnica. Quale sfida per il nostro domani?”.

Un tema, quella del rapporto tra tecnica e evoluzione umana, oggi talmente centrale la condizionare la politica degli Stati fino a prospettare il rischio di stravolgimenti nelle esperienze religiose dell’uomo, nel suo riconoscersi tale di fronte ai cambiamenti tecnologici del mondo che si vive, come ad esempio dell’esperienza sociale o della medicina. “Come le società religiose e la loro esperienza è quella di appartenere a un cosmo, l’esperienza umana è quella di vivere una storia. Invece l’esperienza tecnica è di vivere dentro un sistema, e per questo non c’è più la storia, e i nostri figli fanno fatica a ricordarla. Perché con l’idea che noi siamo una parte di un sistema perdiamo il senso di un’evoluzione storica”, ha infatti affermato Magatti.

“Tutte le volte che l’eccedenza che diventa potenza si chiude in un discorso religioso si fanno disastri”, ha spiegato il sociologo. “Bisogna temere la chiusura della potenza, perché dobbiamo conservarla aperta, ha bisogno di manifestarsi, in più direzioni. Questo movimento oggi tende a essere incapsulato nell’efficienza, quasi che non possa manifestarsi in un’esperienza mistica, di preghiera, o in un momento di sforzo comune di procedere insieme”, è la descrizione dello studioso, che giunge alla conclusione che “il nostro moloch deve essere quello di non cedere a questo dominio di potenza, che avviene con la colonizzazione della società”. Ma che allo stesso modo “non si deve accettare la conclusione pessimista. Può darsi che abbia ragione Emanuele Severino, io però penso ci sia un baco nel suo pensiero. Lui dice che di fronte all’onnipotenza di Dio la religione cristiana è apparsa all’inverso, con il Dio onnipotente che si sacrifica per noi e si fa misericordioso. Ma dove l’essere umano viene salvato, vediamo che il cristianesimo è stata la via in cui non siamo stati finiti schiacciati dall’onnipotenza di Dio”.

Il punto è tuttavia che se “il pensiero democratico occidentale negli ultimi duecento anni ci ha aiutato a pensare la democrazia come un qualcosa che culla la nostra individualità, allora l’algoritmo è collettivo e collettivista. Crea gruppi. E questo mostra oggi le sue tensioni più forti”, come ha messo in luce durante il suo intervento padre Paolo Benanti, giovane francescano del Terzo ordine regolare e docente di teologia morale alla Pontificia Università Gregoriana. “Se prima poi eravamo abituati a parlare di hard power e soft power, dal 2017 abbiamo introdotto lo sharp power, l’idea cioè che questi algoritmi riescano a produrre orientamenti della popolazione che vengono prodotti da altre forme di potere. Ecco allora che religione e politica sono sfidate dalla tecnica. Ma quello che siamo, vogliamo e desideriamo è chiamato a essere reinterpretato in questa stagione della tecnica”, è il giudizio del religioso.

Quello della tecnologia è infatti un tema ampio, da prendere con le pinze e a partire da riflessioni profonde, lontane, radicate nella natura stessa dell’esperienza umana e nelle origini della sua evoluzione. “Risale all’inizio della nostra esperienza”, spiega Benanti. “Ma oggi però mette in crisi la condizione umana. Questa nuova stagione chiede di reinterpretare anche la religione con una nuova visione dell’uomo tocca la nostra identità. E che si fonda su una catena concettuale nuova e insolita: l’algoritmo, una struttura di pensiero che categorizza il processuale all’interno di una struttura logica. Ma che da strumento matematico è divenuta una categoria concettuale in grado di spiegare tutta la realtà”.

È cioè l’algoritmo il nemico pubblico numero uno, in un certo senso, il grande manovratore dei destini umani contemporanei, il grande fratello che ci orienta e ci controlla. Non solo nei comportamenti sociali, ma fin dentro le nostre anime. Ovvero nella fede. Per questo, se consideriamo l’orizzonte religioso, “prima chiedevamo all’oracolo il destino della nostra vita, poi a un certo punto ci siamo detti che ciò che il nostro cuore percepisce è la fonte della verità”, afferma il francescano. Considerato che “oggi abbiamo altre fonti: il motore di ricerca, che ci risponde con un risultato a cui siamo disposti a delegare tutta la nostra autorità, in forza dei dati e scelte”. Che ci catapulta “in una nuova stagione di significazione dei dati: cambia il rapporto con la realtà di natura religiosa. Siamo pronti a creare nuovi dei che giustifichino il nostro agire”. Eccoci perciò giunti inevitabilmente, ha concluso Benanti, “all’orizzonte della nostra realtà politica, dell’azione della convivenza sociale, profondamente toccato dalla realtà della tecnica. Perché in fondo se la realtà è algoritmica, la democrazia altro non è che un algoritmo volto a realizzare un consenso sociale”.

Difficile dire che non tocchi direttamente l’attualità del dibattito: i populismi, la democrazia diretta, la demagogia. Il rapporto tra leader politici e mondo dell’informazione. La disintermediazione del dialogo pubbliche ma anche delle strutture, dei corpi intermedi che vengono sempre più messi in disparte. Insomma, la crisi della democrazia. Non a caso il problema, come ha spiegato il docente di Filosofia morale all’Università di Perugia Massimo Borghesi, è ben radicato in un fatto di cui a lungo si è riflettuto, ma di cui non si è ancora giunti a conclusione. Che cioè, paradossalmente, “dopo l’89 abbiamo cessato di pensare la storia: la sinistra, il mondo cattolico hanno pensato la grande storia del Novecento”, ha spiegato il filosofo. “Questa capacità è venuta meno da noi ma non altrove. Negli Usa, centro dell’impero negli anni della globalizzazione, hanno continuato a pensare la storia contemporanea, con i grandi affreschi di Fukuyama, Huntington, Brezinski. L’Europa ha smesso di pensare la storia contemporanea”.

Quindi, facendo un passo avanti, se “per Magatti il 2008 ha provocato il ripensamento di un modello complessivo che ha dominato per venti anni dopo il muro di Berlino”, vediamo bene che “la globalizzazione è stata riletta da un modello di società tecnologica e tecnica, che predilige i mezzi e lascia sullo sfondo i fini dandoli per impliciti, per raggiungere una grande potenza tecnica”. Un paradigma in cui “il pensiero tecnico incrementa sé stesso, e ogni altra realtà viene finalizzata a questo: sul piano scientifico, sperimentale, economico, politico. Tutto viene finalizzato sul piano della biopolitica”. Un modello, sul piano storico, “che ha travolto destra e sinistra. È finito un modo di concepire l’umanità, i destini, la religione”, afferma Borghesi.

“L’egemonia positivista, dopo la fine delle ideologie, è sancita dalla nuova era tecnica, senza rendersi conto che era una nuova ideologia che entrava, mentre mancava una riflessione critica su quanto stava accadendo”, ha così spiegato il filosofo, cercando di guardare in faccia non tanto al cosa sia successo, ma al come sia stato possibile. “Eccetto rare voci critiche, come Jurgen Habermas, e nel mondo cattolico Romano Guardini alla fine degli anni Cinquanta aveva già riflettuto in largo anticipo sui processi della tecnicizzazione dell’esistenza. E non è un caso che queste riflessioni stanno dietro alla Laudato Sì di Papa Francesco. O in Evangelii Gaudium laddove parla degli scarti, in cui si dice che tutto ciò che non è funzionale e redditizio, non produttivo, debole, viene scartato. Quindi tutta una serie di fasce della popolazione costrette alla deriva sociale. Un paradosso, perché è un mondo opulento ma che produce continuamente scarti, evidentemente non è giusto”. Da lì la constatazione finale, che cioè “il modello tecnico che rifiuta ogni assoluta è il modello del relativismo, Benedetto XVI lo ha detto tante volte. Per il modello tecnico non contano più i valori ma la strumentalità, l’uso. Il valore assoluto diventa elemento di disturbo, inutilizzabile, tutto viene ridotto a merce. In questo senso il mondo tecnico è del relativismo assoluto. Ma è una contraddizione: o è relativo o è assoluto”.

Perciò la domanda è obbligata: come uscire da questa impasse, come pensare diversamente l’Europa, come ritornare alla politica? “La crisi del modello tecnico occidentale ha prodotto ritorni. L’islam radicale è un ritorno reattivo alla religione. Il populismo è un ritorno reattivo alla politica. Il modello tecnico costringe i suoi avversari ad essere reattivi e violenti”, è l’analisi di Borghesi, autore di una fondamentale biografia intellettuale del pensiero di Jorge Mario Bergoglio. “Si odiano ma sono prodotti e reazioni di un avversario comune, l’universalità totalitarista del mondo tecnica. Se la globalizzazione è la sfera omogenea falsa di cui parla Bergoglio, neutralizzando la diversità, la sua riforma non può esistere nel particolarismo moderno, nel ritorno degli stati nazionali, che distrutta l’Europa sarebbero i primi a tornare a lottare tra di loro. Il modello di Magatti è il poliedro di Papa Francesco. Il volto misericordioso del Padre è l’antidoto all’assolutizzazione della tecnica”.

Ma il nesso di questa storia, la storia umana, parte sempre dall’inizio. Cioè “è sempre, dall’inizio alla fine, quello che fa capo a ciascuno di noi, che fa capo alla potenza non come potere ma come slancio di ricerca, il fondo che c’è in ciascuno di libertà, esercitando il quale ciascuno cambia sé stesso e ciò che ha davanti”, ha così affermato in conclusione Giuliano Amato, giudice della Corte Costituzionale. “È ciò che ci distingue dagli altri animali che popolano il pianeta. Noi abbiamo questa capacità creatrice che si ripete in ciascuno di noi. Che ci rende in questo tutti uguali, e di cui ciascuno di noi ha il diritto di far uso. Allora la storia che viene raccontata è la storia che viene scoperta di questa potenzialità creatrice e dell’uso che ne viene fatto da noi e in ciascuno di noi, e della necessità che il potere non sommerga la potenza di ciascuno di noi, segno distintivo di ciascuno essere umano”.

In questa storia, “le religioni diventano interpreti di questa creatività quando passano dal politeismo della natura al Dio potente e onnipotente, che segna che le cose possono cambiare, in quanto rispettare Dio non significa non cambiare nulla”. Ma la domanda centrale di Amato ha a che fare con l’attualità: “Che fine fa un mondo in cui si ricomincia a rifiutare la diversità, e dove il bisogno di sicurezza prevale sul riconoscimento dei diritti, e la potenza creatrice è riconosciuta ad alcuni e non ad altri, distinguendo tragicamente coloro ai quali diritti sono riconosciuti o negati?”. Il giudizio è netto: si tratta di “una involuzione profonda della nostra società. I diritti sono di ogni essere umano, per questo nelle costituzioni appare la parola dignità, pari dignità di ogni essere umano”. Nonostante il fatto che, davanti a questo, “non abbiamo risposte, se non una stella polare. Tutto ciò che mette a repentaglio la potenza creatrice dell’uomo è suo nemico e va combattuto”. Tuttavia, ha concluso in maniera ottimista l’ex presidente del Consiglio, “si dice che si è riusciti a vincere la statolatria, e alla fine anche la tecnocrazia riusciremo a domarla”.


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