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Phisikk du role – A proposito di migranti: quando era proibito andare in città

migranti, minori

Trump affronta le elezioni di mid-term con un sovrappiù di faccia truce- oltre quella d’ordinanza- sui migranti, invitando gli americani a fare “un muro di persone” per fermarli e i militari a “sparare a vista”. Gli fanno eco, con varietà di toni e di trucidezza, alcuni governi europei. Quello italiano, com’è noto, non si sottrae. Pare che agitare il tema porti voti, soprattutto in tempi di riflusso economico .

La smemoratezza, poi, aiuta: siamo stati emigrati anche noi. Nelle tre ondate che hanno segnato la storia dell’emigrazione italiana dall’Unità ai giorni nostri, si calcola che almeno 19 milioni di uomini, donne e bambini nati sul suolo italico siano andati all’estero alla ricerca di una possibilità che li facesse fuggire dalla miseria certa. Tra la prima generazione e le successive in giro per il mondo ci sarebbero oggi non meno che 60 -80 milioni di italiani.

Cominciammo proprio con le Americhe: eravamo noi i “messicani” dell’epoca, ai tempi della grande emigrazione, quella che va dal 1861 all’avvento del fascismo. Ci mettevano in quarantena ad Ellis Island, a New York: oggi saremmo stati definiti “emigranti economici”. Crispi fece una legge nel 1888 che affrontò per la prima volta il fenomeno ma dal punto di vista degli armatori e di chi provvedeva a reclutare gli emigranti. Dopo quella legge per fare l’agente mediatore ( ricorda qualcosa di oggi?) bisognava avere il patentino.

La seconda grande ondata, questa volta essenzialmente europea e interna, da sud a nord, fu quella tra il 1945 e gli anni ‘70. La terza “nuova emigrazione” è ancora in corso ( per stare ai numeri: tra il 2006 e il 2017 si è passati da 3 milioni e cento a quasi 5 milioni di italiani all’estero, + 60%). Anche durante il fascismo, che digrignava i denti per dire al mondo che l’Italia autarchica non aveva bisogno di nessuno, ci furono flussi migratori consistenti, come ricorda la storica Anna Treves, oltre i migranti forzati verso le colonie africane, gestiti direttamente dal governo.

La cosa che sembra scappata dalla memoria collettiva, però, è il divieto delle migrazioni interne posto nel ventennio. Con due leggi, una del 1931 e l’altra del 1939. Quella del ‘39 aveva un titolo esplicito: “legge contro le migrazioni interne e l’urbanesimo”, e tendeva ad impedire la concentrazione di migranti nelle aree urbane dove la popolazione disoccupata e indigente nutriva l’aspettativa di trovare lavoro. La norma stabiliva il divieto di trasferimento della residenza in comuni con una popolazione superiore ai 25.000 abitanti o di “notevole importanza industriale”, anche se con popolazione minore.

Insomma: italiani, si, figli della lupa ok, sudditi dell’impero va bene, purché ognuno restasse a casa sua. Questa legge venne abrogata solo nel 1961, tredici anni dopo l’avvento della Costituzione e della democrazia. E l’abrogazione diede il via alla “regolarizzazione” delle presenze italiane ( prima “clandestine” a causa della legge fascista ancora in vigore) nel nord e a Roma, facendo lievitare in pochi mesi 200.000 abitanti nel triangolo industriale, e facendo esplodere le demografie di Milano ( da 1274000 abitanti del 1951 a 1681000 del 1967) Torino ( da 719000 a 1124700) e Roma da 1650000 a 2614000). Andava ai tempi del miracolo economico. Lontani.


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