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La Brexit, l’Italia gialloverde e i dubbi sulla manovra. Parla Martin Sorrell

varoufakis sorrell

Lo davano per finito, e invece eccolo qua, pronto a reiniziare una seconda vita e a infrangere nuovi record. Sir Martin Sorrell, il guru della pubblicità mondiale, il tycoon britannico che ha fondato il gruppo Wpp plc, la più grande società di advertising al mondo, ci accoglie in una stanza riservata dello studio legale Curtis di Roma. Dalla finestra all’ultimo piano del palazzo delle Generali a piazza Venezia scruta il Vittoriano. L’occasione della trasferta romana è un (curioso) briefing con l’eccentrico ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis (qui l’intervista di Formiche.net), organizzato da Curtis alla presenza di una nutrita platea di industriali e manager italiani.

Finito l’incontro, inizia il secondo ricevimento: uno ad uno gli astanti in fila portano i loro omaggi all’uomo che per 33 anni (record imbattuto) è stato amministratore delegato dell’impero del marketing. Ha lasciato la sua creatura “per il bene dell’azienda” dice lui (ma c’entra anche il pressing del Cda per un’indagine di “personal misconduct” e il cattivo andamento del titolo in borsa). Ora è ripartito, “Back in six weeks” titolava qualche mese fa il Financial Times, con la S4 Capital, cash shell pronta ad aggredire il mercato dell’advertising e già rimpinguata di sterline dal miliardario britannico. Partiamo dall’accordo sulla Brexit, che a Sorrell ancora brucia e non poco. E arriviamo all’Italia gialloverde, che forse il maître della pubblicità globale sa leggere meglio di tanti politologi.

Sir Sorrell, è contento di questo accordo sulla Brexit?

Non penso sia un grande affare per l’Unione Europea, non lo è di certo per il Regno Unito. Ormai è tardi, sembra proprio che usciremo dall’Ue. Un bilancio di eventuali danni si potrà fare solo fra molti mesi.

I numeri parlano. Come ha ricordato Theresa May, un no deal sarebbe molto più doloroso…

È una tesi che mi convince poco. Sento tutti dire “meglio questo che nessun accordo”. A dirla tutta sarebbe stato meglio evitare sia l’una che l’altra ipotesi. Il primo ministro deve dire così, non ha altra scelta. Non metto in dubbio la sua sincerità, anzi ammiro il suo coraggio e la sua perseveranza. Certo, ci saranno conseguenze.

Cioè?

Molti dei miei colleghi mi hanno già detto che sposteranno i quartier generali delle loro aziende in Europa. Città come Dublino, Francoforte, Monaco, Parigi, Milano o Amsterdam, che dista da Londra solo 45 minuti in aereo, diventeranno mete sempre più attraenti. Lo stesso vale per Rotterdam, dove Unilever sta traslocando l’intero comparto alimentare. Io, personalmente, ho sempre auspicato un secondo referendum.

Ma gli inglesi hanno già votato, perché tornare alle urne?

Questo è vero solo parzialmente. Sia al referendum sulla Brexit che alle presidenziali americane del 2016 un terzo degli elettori non ha votato.

Dove vuole arrivare?

I sondaggi in tv ci hanno raccontato che il 70% degli studenti ha votato a favore del Remain. Ho parlato con il vice-cancelliere di Oxford. Mi ha raccontato che prima del voto l’ateneo ha fatto una strenua campagna per portare gli studenti alle urne. Solo il 40% è andato a votare. Questo vuol dire che ad Oxford solo il 28% degli alunni ha votato per il Remain, sono cifre irrisorie. Trump, Farage, Salvini devono la loro vittoria anche a chi ha deciso di restare a casa.

A proposito di Salvini, come si spiega il guru mondiale della pubblicità il successo del Carroccio e degli altri movimenti sovranisti europei?

Basta tornare indietro di dieci anni, alla crisi finanziaria del 2008. Allora l’economia fu salvata dal denaro a buon mercato e dal quantitative easing. Questo cocktail può aver risolto il problema nel breve termine, ma nel lungo periodo ha aumentato le diseguaglianze concentrando la ricchezza nelle mani di pochi. A questo si è aggiunto il progresso tecnologico, che negli ultimi dieci anni ha messo all’angolo la classe media e ha radicalmente cambiato il mondo del lavoro. Lo aveva predetto John Maynard Keynes nel 1929 con la sua General Theory. Solo che all’epoca Keynes era convinto che la tecnologia ci avrebbe portato ad avere più tempo libero. Le cose sono andate diversamente.

L’ha presa da lontano…

Perché è in quegli anni che questo processo ha avuto inizio. Se al salvataggio delle banche nella crisi dei subprime e alla distruzione del lavoro dovuta alla rivoluzione tecnologica si somma la crisi migratoria, allora la paura e il populismo che regnano in Europa non sembrano poi così strani. Se due anni fa ti avessi detto che in Italia la destra e la sinistra si sarebbero messe insieme mi avresti preso per pazzo, ma in fondo questo è quello che è successo con la Lega e il Movimento Cinque Stelle.

Sull’Italia gialloverde e il suo debito sono puntati gli occhi della Commissione Ue. Il greco Varoufakis l’ha definita, un po’ ottimisticamente, il “Giappone” dell’Europa. Lei che idea si è fatto?

L’unica cosa che hanno in comune l’Italia e il Giappone è un basso tasso di natalità e un’altissima età media della popolazione. Lo so bene perché ero presente quando Shinzo Abe in campagna elettorale diceva al suo team che la priorità assoluta era incentivare le nascite. Per il resto il paragone non regge. L’Italia è un Paese diviso in due, con un Nord sviluppato e fiorente e un Sud pieno di problemi. È un unicum, non solo in Europa.

Il ministro dell’Economia Giovanni Tria prevede una crescita intorno all’1,6%. Lei crede a queste stime?

Sinceramente no. L’intera legge di bilancio mi sembra ambiziosa, la maggior parte degli esperti con cui ho parlato rimane scettica su queste stime di crescita per il prossimo anno.

 

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