Ieri è stato presentato all’Ambasciata italiana presso la Santa Sede l’ultimo Rapporto sulla libertà religiosa di Aiuto alla Chiesa che soffre, alla sua quattordicesima edizione. Tra le stime principali, “sono circa trecento i milioni di cristiani che soffrono in tutto il mondo a causa della loro professione di fede, un numero cresciuto e determinato su una serie di indici abbastanza rigorosi”, spiega conversando con Formiche.net il giurista Alfredo Mantovano, presidente di Acs-Italia, che snocciolando i dati ricorda che “sono stati identificati trentotto paesi dove vi è una grave o estrema violazione della libertà religiosa, ventuno dei quali classificati come grave persecuzione e diciassette di grave persecuzione”. Mentre “i cinque al vertice di questa graduatoria del male sono quelli segnati con colore nero”, spiega Mantovano: “Corea del nord, Arabia Saudita, Nigeria, Afganistan o Eritrea”.
(Qui la sintesi del Rapporto 2018)
Tra questi numeri, che parlano di un livello di persecuzione religiosa pericolosamente in crescita su scala globale, quali sono le caratteristiche che emergono e che più saltano all’occhio?
Alle stime fatte si aggiunge l’accentuarsi di un fenomeno già manifestato nei bienni di osservazione precedenti, ma che in questo si è manifestato con maggiore virulenza e riguarda stati e paesi nei quali l’istanza fortemente nazionalistica si è spinta fino a negare la libertà religiosa, o perché connessa con una singola confessione religiosa che ritiene di dover prevalere sugli altri, o perché c’è un atteggiamento di sfavore nei confronti di tutti i gruppi religiosi. Nel primo caso è l’India, con la prevalenza dell’induismo come religione di stato di questo enorme subcontinente, e in questo caso la persecuzione e discriminazione riguarda sia musulmani e cristiani. E nel secondo caso la Cina, che ha visto un ulteriore giro di vite negli ultimi due anni, dove ogni elemento che rappresenta una manifestazione di fede religiosa è visto come ostile rispetto a quello che impone lo Stato centrale.
La Cina fa subito pensare all’accordo siglato con la Santa Sede, che non esclude il fatto che debbano essere mantenuti i fari accesi, anzi lo incoraggia. Secondo lei possono cambiare le cose?
Lo studio di quello che accade in un determinato periodo storico si muove su un piano diverso rispetto agli accordi tra stati sovrani, specialmente se molto particolari, come quello tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese. Sono due piani distinti, nel senso che la conoscenza del fenomeno non è in contraddizione, e quindi mostrarlo pubblicamente non contraddice lo sforzo di migliorare la situazione, che appartiene all’attività diplomatica della Santa Sede che cerca di migliorare le condizioni dei fedeli e dei suoi pastori. Il nostro lavoro risponde a un’esigenza di verità, anche per capire se in futuro, vista la situazione fotografata, l’accordo produrrà miglioramenti oppure no.
Tra questi cinque paesi ce ne sono due africani. C’è un collegamento con il fenomeno delle migrazioni?
Le migrazioni, in larga parte per l’Eritrea e in parte per la Nigeria, sono una scelta di necessità per sfuggire alle persecuzioni, e non è un caso se negli anni recenti l’etnia eritrea è stata la maggiore tra gli sbarcati sulle coste italiane. Anche perché la via di fuga per l’Europa, dopo un transito di migliaia di chilometri, passa dal canale di Sicilia. Un discorso analogo è fatto per la Nigeria, soprattutto per le zone sottoposte al dominio quasi incontrastato di Boko Haram. Poi è chiaro che va fatta una disamina caso per caso, ma la situazione dei due paesi contribuisce sicuramente a spiegarne l’esodo.
Lei parlava di dati in crescita, quindi c’è un trend crescente della diminuzione di libertà religiosa. Qual è la ragione?
Quella su cui ciascuno di noi può incidere maggiormente è l’indifferenza. La vicenda di Asia Bibi, che si deve ancora concludere, non ha trovato conclusione con la condanna a morte di questa donna perché il suo caso è stato reso noto al di fuori del Pakistan e più di una testata giornalistica, alcune continuativamente e altre talvolta, ha ricordato la sua ingiusta prigionia. Ma vicende come quella di Asia Bibi nel solo Pakistan sono tantissime e in giro per il mondo sono ancora di più. Questa dimostra che è sufficiente un po’ di attenzione per fermare la mano del boia, e se questa si accentua ancora di più è capace anche di contribuire alla sua liberazione, nonostante in questo momento non ha ancora lasciato il Pakistan. Una dimostrazione positiva per lei, ma al contrario per tutti quei casi che vengono lasciati nel dimenticatoio o per i quali ci giriamo dall’altra parte.
Qual è la responsabilità di istituzioni e governi?
Se oggi il rispetto del diritto alla libertà religiosa non viene considerato una priorità dagli Stati europei e occidentali, questo contribuisce a rendere ancora più oppressiva l’azione dei regimi che la violano. Lo ha detto martedì sera il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia, per il pellegrinaggio dei giovani culminato con l’illuminazione in rosso della Basilica della Salute a Venezia (nella foto, ndr) e di larga parte del Canal Grande. L’indifferenza fa vittime come il terrorismo. Papa Francesco nel messaggio inviato a Venezia ha detto che l’iniziativa è provvida perché serve a richiamare l’attenzione. Questo è il punto. Quando succedono queste cose la persona comune che non ha responsabilità di governo si chiede: ma io cosa posso fare? Si può fare parecchio se si tiene alta l’attenzione. E questo chiama in causa la responsabilità dei governi occidentali e dei media.
Ci faccia un esempio.
È stata data parecchia attenzione con la campagna cosiddetta del Me Too, e invece non viene data nessuna scarsissima attenzione o rilievo all’oppressione di tantissime donne nel mondo a causa della fede. Nessuno vuole sminuire la violazione della dignità delle donne denunciata nella campagna del cosiddetto Me Too, però si tratta di una realtà incomparabilmente inferiore per quantità e qualità rispetto a quello che interessa milioni di donne sequestrate, stuprate e uccise in giro per il mondo e di cui invece non c’è neanche una percentuale minima di interesse come è stato per il Me Too.
Il tema dell’indifferenza sicuramente interpella tutti noi e lei ha citato in particolare il mondo dei media. Però c’è anche chi sostiene che nel mondo musulmano non ci sono state prese di posizione a favore della giovane.
Questo non è vero, per due ragioni: la prima è che va segnalata la sentenza dei giudici della Corte suprema del Pakistan che ne ha disposto la liberazione. Questi sono tutti fedeli dell’islam, altrimenti non farebbero parte della Corte suprema, e hanno scritto una sentenza di cinquantasei pagine pienissima di riferimenti al Corano, ed è proprio facendo appello frequente al Corano che sono arrivati a dire che Asia Bibi non è una peccatrice, quindi non merita la morte per la sovrapposizione tra peccato e reato secondo la sharia, ma è una vittima. Sono tutti musulmani quelli che hanno scritto la sentenza, e sottoscrivendola rischiano la propria vita. Per la difesa di Asia Bibi hanno perso la vita il governatore del Punjab Salmaan Taseer e il ministro delle minoranze religiose Shahbaz Bhatti. Quindi non bisogna mettere tutto sullo stesso piano. Se è vero che ci sono state manifestazioni di piazza violente o radicali di piazza, che dopo la sentenza chiedevano che Asia Bibi fosse nuovamente arrestata, bisogna dire che c’è anche una fascia consistente di pakistani musulmani che in piazza non c’è andata e nel modo in cui era possibile farlo ha manifestato il proprio dissenso rispetto a quella modalità di contestazione.
Tra i fenomeni nuovi da segnalare si riscontra il riemergere dell’antisemitismo in Europa e del nazionalismo aggressivo. Quali sono i casi su cui mantenere più attenzione?
A parte l’India e la Cina, la stessa Corea del Nord fonda la persecuzione religiosa su un fortissimo richiamo nazionalistico, facendo coincidere il presidente con un soggetto quasi destinatario di un culto personale. Anche il Pakistan ha fortissima questa istanza nazionalistica, o la Turchia, è quindi un fenomeno che attraversa differenti paesi con marchi di prevalenza diversi paese per paese. Per esempio in Birmania le vittime sono musulmani Rohingya, quindi è un fenomeno che si sta accentuando. Noi siamo attenti alla libertà religiosa con riferimento a qualsiasi confessione, ma è ovvio che la gran parte dell’attenzione riguarda i cristiani, perché su cento persone discriminate ottanta sono cristiani. La libertà religiosa è qualcosa che va sempre considerata per tutte le confessioni, perché quando viene violata per uno viene violata per tutte. È accaduto in passato, come durante il nazionalsocialismo, dove gli ebrei hanno subito le persecuzioni più efferate ma i cattolici non è che se la sono vista bene. Ciò che va difeso è il foro della coscienza che porta a riconoscere l’esistenza di un Dio e a triburtargli la devozione conseguente.
Sul tema, invece, di cui si è dibattuto molto nelle scorse settimane e che riguarda la Sentenza della Corte europea sull’Ici che la Chiesa dovrebbe restituire allo Stato italiano, lei, da giurista, che ne pensa? C’è in qualche modo anche lì un tema di libertà religiosa?
Io non lo collegherei a quella sentenza in particolare, perché è stata molto enfatizzata senza averla letta mentre in realtà dice al governo italiano di fare un’istruttoria che avesse per oggetto l’impossibilità di riscuotere l’Ici prima del cambio della legge italiana avvenuto nel 2012, in cui l’Ici scompare e viene sostituita dall’Imu, e dove il regime fiscale degli immobili diviene un po’ più chiaro e ordinato, con linee di confine nette tra sfruttamento commerciale ed edifici religiosi. Mentre, prima, il punto è che se non hai proceduto neanche alla riscossione devi dimostrare che questo è non avvenuto, quindi non è una sentenza contro la Chiesa cattolica, ma di richiamo allo stato italiano che si è maldifeso, come purtroppo spesso accade, davanti alla Corte europea. Detto questo, non va negato l’orientamento che aleggia in tanti uffici giudiziari in Europa e anche negli Stati Uniti, che non arriva alle forme di persecuzione o di grave discriminazione dei paesi collocati al vertice della graduatoria, ma che per esempio quando si toccano temi eticamente sensibili comunque mostra scarso rispetto per la libertà religiosa e di coscienza, e ricordiamo il caso di Kim Davis o della funzionaria inglese licenziata per una vicenda analoga. Non a caso nel rapporto di Acs ci sono schede che riguardano tutti i paesi del mondo, perché l’attenzione va riportata anche in quelle forme di discriminazione che non fanno stragi di sangue ma che provocano gravi sofferenze.
Qual è l’insegnamento che l’Occidente, da questi dati, può trarne?
Interessarsi maggiormente della questione, cogliere i segnali positivi che arrivano da quelle aree, come ad esempio l’Iraq, dove la sconfitta dello Stato Islamico ha fatto tornare i cristiani. E infine considerare che questo richiede aiuti concreti. Noi possiamo anche continuare a ripetere lo slogan suggestivo dell’aiutamoli a casa loro, ma se uno la casa l’ha avuta devastata, come i cristiani a Mosul per la piana di Erbil, quella casa va ricostruita, e per ricostruirla ci vogliono risorse. Acs finora ha permesso di ricostruire lì case che sono tornate a ospitare quarantunomila cristiani. Se ci fosse l’intervento dei paesi europei e occidentali, anche con somme contenute rispetto ai bilanci complessivi, questa sarebbe molto più rapida ed estesa. Quindi servono gesti concreti, non slogan.