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Non indipendenza, ma autonomia. Il nuovo corso della difesa europea

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II quadro delle minacce fa paura. Terrorismo, ritorno della competizione tra potenze, cyber-attacchi e un’ondata migratoria senza precedenti. Il tutto in un contesto economico che fatica ad accelerare, alimentando il rischio di una nuova recessione. E se gli Stati Uniti di Donald Trump proseguono il trend di riduzione del coinvolgimento nel Vecchio continente, è all’Unione europea che viene richiesto il salto di qualità, a partire dalla difesa. Attenzione però: le iniziative di Bruxelles non devono essere un pretesto per ridurre gli sforzi nazionali. Anzi, a ogni Stato è richiesto di spendere di più, superando anche una certa cultura post-moderna secondo cui la politica di difesa è marginale nell’attuale contesto internazionale. È quanto emerso dall’evento “Industria della difesa e autonomia strategica europea”, promosso a Roma dall’Istituto Gino Germani di Scienze sociali e studi strategici, e dall’Institut français d’analyse stratégique, con il supporto di Safran.

QUALE AUTONOMIA STRATEGICA?

La parola d’ordine è “autonomia strategica”, che certo non vuol dire abbandonare il filo che ci lega agli Stati Uniti, ma piuttosto rivitalizzarlo e rinvigorirlo. “Se vogliamo che il link transatlantico rimanga, qualcosa deve cambiare”, ha spiegato l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, già ministro della Difesa e capo di Stato maggiore della Difesa. “L’autonomia strategica non è incompatibile con il legame con gli Usa e con la Nato, al contrario dovrebbe essere complementare”, gli ha fatto eco Luigi Sergio Germani, presidente dell’Istituto, spiegando che negli ultimi due anni il dibattito è stato alimentato da due fattori. Primo, un fatto di percezioni. Se in Europa, “con l’amministrazione Trump, si è diffusa la percezione per cui gli Stati Uniti saranno sempre meno coinvolti nella sicurezza e nella difesa del Vecchio continente”, parallelamente, negli States, si ritiene che “l’Europa non abbia la volontà di spendere per la propria difesa”. Secondo, un quadro di minacce senza precedenti.

LE MINACCE

Ci sono almeno tre tipi di minacce che premono sul Vecchio continente, rischia “a cui ogni Paese attribuisce un’importanza differente a seconda delle sue percezioni”, ha rimarcato Germani. Prima di tutto, la pressione ad est da parte della Russia, con l’annessione della Crimea e la crisi ucraina, ma anche con la spinta “all’hybrid warfare” che punta a intaccare lo stato di sicurezza di Nato e Europa. Poi, c’è la perdurante instabilità mediorientale, con connessa minaccia jihadista che è arrivata nel cuore dell’Europa. Infine, ci sono “flussi migratori massivi e incontrollati, destabilizzanti socialmente e politicamente”, ha notato ancora l’esperto. Ebbene, “nessuno Stato è in grado di affrontare da solo tali minacce”, anche perché resta lo spettro di una nuova crisi finanziaria, ha spiegato Francois Géré, presidente dell’Istituto francese, d’accordo tra l’altro con una lettura dell’autonomia strategica che non collide con gli stretti rapporti tra Europa e Stati Uniti. D’altra parte, la politica portata avanti da Donald Trump “non è nuova; il ribilanciamento è stato lanciato dalla prima amministrazione Obama, compresi i messaggi alla Nato per spendere di più nella difesa”.

I CINQUE PASSI DA FARE SECONDO DI PAOLA

Sono cinque i passi da compiere per dotare l’Europa di un’autonomia strategica così intesa, secondo l’ammiraglio Di Paola. Prima di tutto, serve “la volontà politica”. Poi, occorre “metterci i soldi in maniera seria; la difesa comune non serve per spendere di meno; dobbiamo spendere meglio ma anche di più, è matematico, considerando che la spesa complessiva in Europa si aggira intorno ai 230 miliardi di euro contro i 700 miliardi di dollari degli Stati Uniti”. Terzo passo, costruire “una pianificazione comune per la difesa, condivisa e armonizzata”, elemento che presuppone un certo allineamento anche delle politica estera e di sicurezza. Quarto, l’impegno “sulla base industriale”, necessario perché diventi “più efficiente anche nel senso di maggiore integrazione, su cui resta la responsabilità politica per ciò che riguarda l’indirizzo”.

NON SI PUÒ PENSARE ALL’AUTARCHIA

Certo, in tal senso non si può pensare “all’autarchia, come pure in molti stanno facendo in questo periodo”. Basti pensare alla ricerca, i cui livelli di spesa “sono molto al di sotto di quelli di Stati Uniti, Russia e Cina”; eppure, ha notato di Paola, “qui si parla di futuro, di hybrid warfare, di quantum computing e di intelligenza artificiale, elemento che cambia completamente la velocità del processo decisionale, rappresentando la vera evoluzione degli affari militari”. Infine, c’è il passo più culturale. “Per rilanciare il legame transatlantico e la difesa europea occorre che questi temi siano discussi tra la gente, non solo tra esperti; i cittadini ne devono capire l’importanza”, ha rimarcato l’ammiraglio.

LO STATO ATTUALE

Una dimensione culturale che si inserisce in una visione politica. D’altra parte, “è difficile immaginare una difesa comune senza una politica comune”, ha spiegato il colonnello Andrea Truppo, esperto del settore e co-autore del libro “Difendere l’Europa”. “La capacità di difesa è il risultato finale di un processo molto complesso che ha inizio con la volontà politica, la quale definisce il livello di ambizione e il budget a disposizione”, ha rimarcato. L’inefficienza europea è in tal senso evidente nei numeri. I sistemi d’arma del Vecchio continente sono circa 170, contro i 40 statunitensi. In Europa abbiamo 17 diversi carri armati contro il singolo modello Usa. Lo stesso, ha notato Truppo, si può dire delle navi militari e dei velivoli. D’altra parte, tra i 27 Paesi che aderiscono all’Agenzia europea di difesa (Eda), “più dell’80% del procurenment in equipaggiamenti è nazionale, mentre lo è oltre il 90% degli investimenti in ricerca e sviluppo”.

UN’OPPORTUNITA’ DI RILANCIO

Per uscire da tale situazione, l’Unione europea ha messo in piedi un piano ambizioso, per ora limitato ma ambizioso. Sin dalla presentazione della Global Strategy nel 2016, ha ricordato il generale Fortunato Di Mario, vice direttore del III Reparto Politica industriale e Relazioni internazionali del segretariato generale della Difesa, l’Ue ha cercato di invertire il trend. La cooperazione strutturata permanente (Pesco) e il Fondo europeo di difesa (Edf) ne sono le dimostrazioni più evidenti. Con la prima, gli Stati partecipanti sperimenteranno nuove collaborazioni. Con il secondo, si cerca di alimentare l’integrazione del comparto industriale, con risorse che si annunciano pari a 13 miliardi di euro tra il 2021 e il 2027. Non sostituiscono gli impegni nazionali. Piuttosto, richiedono agli Stati una maggiore contribuzione, fissando obiettivi comuni e legando la possibilità di partecipare agli investimenti eseguiti. Per questo, come ha evidenziato per l’industria il consigliere militare dell’ad di Safran William Kurtz, il Fondo ideato da Bruxelles “rappresenta una grande opportunità di sviluppo”, purché corrisponda alla volontà politica di investire nel settore. La responsabilità, in definitiva, è della politica, chiamata a interpretare le sfide attuali e a indirizzare risorse verso un comparto essenziale, sia per la difesa, sia per la crescita.

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