Passata la giornata internazionale dedicata alla violenza sulle donne, i due ministri Bongiorno e Bonafede riuniscono il consiglio dei ministri per approvare un ddl sull’istituzione di “Un codice rosso”, cioè un percorso giuridico che sostenga le donne vittime di violenza nel coacervo istituzionale che si trovano di fronte dal momento della denuncia fino al processo degli eventuali colpevoli.
Come al solito la Giornata mondiale riporta alla ribalta il tema anche in Europa, dove l’odioso fenomeno ha numeri importanti: secondo le statistiche infatti, una donna su tre in Europa sperimenta violenza nel corso della sua vita. Oltre al discorso culturale, ovviamente ci sono anche le misure di contrasto, che sappiamo ancora molto deboli, che devono venire da una possibile nuova direttiva per una politica integrata e da una completa adesione con ratifica, da parte Ue, alla Convenzione di Istanbul anche nota come Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Uno strumento giuridicamente vincolante che prescrive una serie di azioni per la prevenzione e la lotta contro la violenza in diversi ambiti, in termini di garanzia per l’azione penale contro gli autori di reati e di sostegno alle vittime anche in senso logistico. Il tutto in un quadro in cui, si afferma nel testo, tutti gli Stati membri dell’UE hanno firmato la convenzione, ma soltanto quattordici l’hanno ratificata.
Tra questi, c’è l’Italia che ai tempi del Governo Monti fu una dei primi ad assumersi la responsabilità di sottoscrivere gli impegni molto articolati, poi non sviluppati dai governi seguenti compreso l’attuale che si limita ad annunci ma che al di là delle pochissime risorse messe a disposizione dei rari centri antiviolenza e di spot pubbliciari, nonché liturgiche manifestazioni, senza aver neanche preso in considerazione ciò che il JobS act ha previsto per le lavoratrici che subiscono violenza, rimane immobile promettendo un codice rosso che peraltro fa il verso al codice rosa di cui pochissimi ospedali, per fortuna responsabilmente e in tutta autonomia, si sono dotati per accogliere le donne che si presentano al pronto soccorso garantendo un po’ di privacy.
Le esortazioni ad accelerare sono tante al fine dell’eliminazione del fenomeno, in sede europea. Sono diverse le richieste, per trovare una risposta giuridicamente all’altezza dei risultati: una direttiva che sia base giuridica comune, per una politica integrata, che metta anche a disposizione risorse e servizi ma che vediamo costantemente umiliata anche dai provvedimenti che in questi giorni si stanno assumendo in plenaria in ambito Ue. Infatti la Commissione Europea per i diritti delle donne ha fatto la proposta di spostare il bilancio di previsione 2020/2023 su interventi appunto di gender mainstreaming che tengano in considerazione non solo l’importanza di servizi per l’occupazione femminile ma soprattutto per contrastare tutte le altre forme di violenza contro le donne, iniziative che sostengano appunto la discriminazione occupazionale, gli interventi nelle scuole, i servizi per l’infanzia per consentire alla popolazione femminile di poter avere gli stessi diritti nel tessuto sociale perché una delle violenze peggiori è la mancanza di lavoro e di conciliazione con i tempi di cura alla famiglia.
Il tema di un quadro giuridico europeo comune, ma anche di una corretta attuazione della convenzione, con risorse adeguate per la prevenzione e la lotta, vanno di pari passo, perché su “programmi e fondi Ue riguardanti la convenzione” ma anche su una maggiore comprensione del fenomeno, ci sarebbe uno scatto in avanti. Senza la ratifica, insomma, si perde un’applicazione coerente a tutti i livelli, che porterebbe di certo qualche sostanziale beneficio. È la stessa Commissione infatti a riconoscere che tra i vantaggi figurerebbe un diverso obbligo per la raccolta di dati e la comunicazione a Eurostat, per una maggiore comprensione del fenomeno, ma anche una diversa responsabilità di riferirne a livello internazionale, attraverso l’organismo di controllo. La violenza sulle donne non è solo un crimine tra i più odiosi, ma ha anche un elevato costo sociale che, solo nel nostro Paese, è pari a 26 miliardi di euro l’anno.
A dirlo è l’Eige – Istituto europeo per l’Uguaglianza di Genere – che ha pubblicato l’Indice 2017 sull’uguaglianza di genere che esamina infatti in dettaglio problemi e le sfide affrontate per conseguire, appunto, l’uguaglianza di genere in tutta l’Unione europea dal 2005 al 2015. L’indice misura le differenze tra donne e uomini in domini chiave nell’ambito delle politiche dell’Unione Europea (lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute). L’indice misura inoltre la violenza contro le donne e le disuguaglianze e mostra in sostanza come il genere interagisca con l’età, l’istruzione, la composizione della famiglia, il paese di nascita, la disabilità. Nel nostro Paese il 27% delle donne ha subito violenza fisica e/o sessuale dall’età di 15 anni. Sempre nel nostro Paese, il 15% delle donne che negli ultimi 12 mesi ha subito violenza, non lo ha segnalato a nessuno. Questo livello è di poco inferiore rispetto alla media europea del 13%. La violenza ha poi un costo, legato alla perdita di produzione economica, dell’utilizzo dei servizi e dei costi personali. I 26 miliardi sono una stima certo, ma estrapolata da uno studio di caso nel Regno Unito dove sono disponibili dati amministrativi relativi a diversi aspetti sociali (dalla criminalità alla salute) che hanno reso possibile lo sviluppo di un modello di calcolo.
La Commissione Europea ha fatto riferimento alla colonna GBVAW (Gender based violence against women) per la prevalenza del fenomeno e quindi riferisce un costo complessivo europeo che supera i 225 miliardi di euro. Costi a parte ci vuole veramente poco a capire che bisogna ancora lavorare per l’unico obiettivo condivisibile: sradicare il fenomeno della violenza sulle donne significa però metterlo in cima alle priorità e dunque ci vogliono fatti e non celebrazioni.