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Quale formazione per lavorare in una società IA centrica. La versione di Floridi e Bentivogli

Di Patrizia Feletig e Felicia Pelagalli
generazione z, artificiale

Si è tenuto lo scorso giovedì 15 novembre presso l’Auditorium del Maxxi l’incontro Human digital transformation – Disegnare un progetto umano per il XXI, durante il quale il filosofo Luciano Floridi, professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione dell’Università di Oxford, Marco Bentivogli, segretario generale Fim Cisl, Felicia Pelagalli, docente di formazione e trasformazione digitale all’Università Sapienza di Roma, founder Cutlure srl, presidente Associazione InnovaFiducia; e Giovanna Melandri, presidente della Fondazione Maxxi, si sono confrontati sul tema della trasformazione digitale e di come algoritmi, big data e sistemi di Intelligenza artificiale possano (o non possano) contribuire a creare una società più umana per il futuro. È possibile rimpiazzare la paura e l’interesse egoistico con la speranza e l’altruismo? L’incontro, ideato e organizzato dal Maxxi in collaborazione con Culture e l’Associazione InnovaFiducia, è uno degli appuntamenti promossi per approfondire i temi della mostra Low form sul rapporto tra arte e intelligenza artificiale, al Maxxi fino al 24 febbraio 2019.

La “velocità di curvatura” dell’innovazione tecnologica come l’ha definita il segretario generale dell’Onu Guterres prendendo a prestito l’espressione da Star Trek, ha bisogno della lentezza del pensiero filosofico. Il dialogo multidisciplinare, che accoglie la prospettiva umanistica, è fondamentale per evitare interpretazioni semplicistiche (non semplici) e contrastare la frammentazione di vedute iperspecialistiche sul condizionamento tecnologico. L’intento è guardare alla tecnologia, alle tante tecnologie, non solo come fine a se stesse, ma come leva di un progetto umano. È un approccio imprescindibile se si considera che il secondo balzo in avanti dell’umanità, come viene definito l’insieme di tutte quelle tecnologie abilitanti di cui l’intelligenza artificiale rappresenta solo una parte, investe la sfera cognitiva dell’uomo e impatta non solo il lavoro e i processi produttivi, ma l’intera vita: dalla salute, all’istruzione, all’esercizio di governo.

Questa riflessione pur senza essere mai veramente entrata nell’agenda politica, purtroppo, si è dilatata nel dibattito pubblico al punto che la sua narrazione distopica ha finito per prendere il sopravvento diventando martellante. Nell’immaginario collettivo, oscillante tra un iperliberismo da Silicon Valley e un dirigismo cinese, algoritmi, big data, robot minacciano i nostri diritti, portano al collasso le nostre  libertà, e, non ultimo, spazzeranno via il lavoro. Quest’ultima profezia non convince Luciano Floridi, professore di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, il quale pur sostenendo la necessità di una vigilanza sui rischi di deriva applicativa dell’Ia, ne considera le potenzialità nella trasformazione del mondo del lavoro. Con l’Ia si realizza lo scollamento tra la necessità di fare cose con efficacia, riuscendoci, e la necessità di essere intelligenti. Per esempio, le autovetture a guida autonoma sono capaci di parcheggiare meglio di un conducente, ma con un quoziente d’intelligenza inferiore a quello di un essere umano. In questa spaccatura si annidano un po’ di problematiche, perché produrrà inevitabilmente un certo tipo di disoccupazione, ma anche enormi opportunità per l’economia circolare, l’economia verde, per le Pmi che riescono ad elevarsi a livelli internazionali. Il lavoro non scomparirà, ma cambierà la sua natura e la sua concezione, anche al di là della nostra capacità a riconoscerlo come tale (del resto l’etica del lavoro che abbiamo oggi risale a una rivoluzione industriale superata).

Più drastico ancora Marco Bentivogli, segretario generale Fim-Cisl  e sindacalista atipico che rovescia l’assioma: da noi, in Italia, è l’assenza di tecnologia che ha distrutto posti di lavoro non è la tecnologia. È nel governo della transizione, ossia nell’intervallo tra quando si distrugge il vecchio posto di lavoro e se ne costruiscono uno o più di nuovi, che la partita è aperta. Questa si gioca sulla capacità del Paese di ricostruire le proprie competenze di modo che le opportunità siano esaltate e contrastati i rischi. Purtroppo il paradosso è che in Italia quando ci sono le macchine, mancano i macchinisti. Infatti nei prossimi 5 anni l’industria nazionale avrà bisogno di quasi 500mila specialisti tra tecnici, periti e laureati in materie scientifiche. E uno su tre non si troverà secondo le stime di Infocamere.  Sul banco degli imputati la mancanza di un corretto orientamento agli studi e un modello d’istruzione nazionale che, come ormai si ripete ad nauseam, è centrato quasi esclusivamente sull’aula. Peccato che l’unico tentativo mai fatto in Italia di avvicinare questi due mondi con il modello alternanza scuola-lavoro, è stato stralciato dall’appena insediato governo del cambiamento.

La formazione poi, rischia di prendere una direzione sbagliata secondo il filosofo Luciano Floridi, per colpa di una percezione inesatta. Per esorcizzare la paura che l’intelligenza artificiale rimpiazzerà metà degli impieghi nei prossimi quindici anni, si contrabbanda l’assioma che creatività ed empatia spetteranno all’uomo e fatica e lavoro alle macchine. A parte il fatto che se è vero che i computer ci battono al gioco degli scacchi mentre loro non si divertono, noi umani sì; è anche vero che non ci vorrà tanto prima che i robot siano capaci di simulare empatia altrettanto bene se non meglio, di noi umani. Quindi questa discriminante sembrerebbe venir meno. Comunque continuiamo a ritenere che esisteranno sempre delle attività “umane” (come ad esempio scegliere) che sarà meglio tenere riservate alle persone, anche se una macchina potrà forse fare meglio.

Secondo Floridi partiamo dall’assunto (sbagliato) che l’Ia ci porti via il lavoro e quindi guardiamo a valle chiedendoci che cosa ci resterà. Invece, dobbiamo lavorare a monte per capire quello di cui ha bisogno la nostra formazione. Servono i fondamentali della fisica, della biologia, della matematica, e assieme a questi skills duri serve l’acquisizione dei linguaggi fondamentali dell’informazione, da non confondere con la capacità di programmare, di conoscere il linguaggio Python (che certo non guasta). Floridi fa l’esempio del linguaggio della musica perché se devi andare a fare il tecnico del suono o il sound engineer devi avere quelle basi; oppure il linguaggio della composizione narrativa perché non potrai mai entrare nella startup di videogiochi se non sai comporre una storia. Insomma non saranno le soft skills, che tanto rassicurano, a salvare il posto di lavoro, soprattutto in un frangente in cui l’85% dei lavori che esisteranno nel 2030 devono ancora essere inventati.

 

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