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Midterms, il riscatto dei dem Usa non può passare solo dalle urne

La campagna per le elezioni di medio termine negli Stati Uniti ha sottolineato il divario politico tra democratici e repubblicani, com’è inevitabile quando c’è da chiedere il voto agli elettori. In questo caso però riflette un problema più profondo, una spaccatura che va oltre i temi più in vista come la politica fiscale, la sanità, e anche l’immigrazione. Si sta rafforzando la bolla in cui vive una parte del paese, senza riuscire a capire le istanze di quella “America profonda” che risponde agli appelli contro gli effetti negativi della globalizzazione, che hanno permesso l’elezione di Donald Trump nel 2016. È una situazione che comporta dei grandi rischi, che sono istruttivi anche per l’Europa.

La classe dirigente che ha subito la sconfitta nelle presidenziali Usa del 2016, e che ora vede la crescita dei movimenti anti-sistema in tutta Europa, sta reagendo senza creare un ponte di dialogo sui temi di fondo che hanno alimentato le proteste. Piuttosto molti cercano di negare anche solo la possibilità di un dibattito vero. Così il protezionismo porterebbe automaticamente alla guerra, la parola “globalista” viene considerata per definizione antisemita, e chi difende la sovranità nazionale sarebbe per forza un razzista, perché “ovviamente” il nazionalismo non può essere altro che il “nazionalismo bianco”.

È un errore cercare di limitare il dibattito su questi temi, bollando il sentimento anti-establishment come un rigurgito reazionario da sconfiggere in qualsiasi modo. Il mondo occidentale deve fare i conti con alcuni temi prorompenti, non perché lo vogliono i populisti, ma perché rappresentano le sfide inevitabili del mondo attuale. Questi sono:

– la trasformazione economica della globalizzazione, che ha avvantaggiato i più benestanti, togliendo sicurezza e stabilità alla maggior parte della popolazione (e la strada è ancora lunga per modificare i meccanismi economici di base anche negli Stati Uniti, nonostante gli indicatori positivi);
– il ruolo degli Stati nazionali, che non sono mai scomparsi nonostante gli appelli – a volte strumentali – ad un mondo di regole e valori condivisi;
– il cambiamento degli equilibri strategici, con l’ascesa della Cina, che solleva domande sul ruolo degli Stati Uniti e dell’Europa nei decenni a venire.

Il punto è che il terreno fertile per il populismo è stato plasmato da cambiamenti fondamentali, che vanno affrontati alla radice. Questi temi non sono sempre evidenti nelle polemiche politiche quotidiane, ma difficilmente le polemiche potranno essere raffreddate senza fare progressi sulle questioni di base.

Per i democratici queste elezioni di medio termine sembravano facili, il momento del riscatto contro la vittoria a sorpresa di Donald Trump due anni fa. Doveva bastare sbandierare il vessillo della resistenza per provocare un’onda blu. Eppure alcuni limiti rimangono chiaramente, nella capacità dei dems di mobilitare certi segmenti dell’elettorato, come gli ispanici e la famosa “classe lavoratrice bianca” che ha abbandonato la sinistra negli ultimi anni.

In ogni caso questa è la parte più semplice per i democratici: guadagneranno seggi alla Camera e saranno in una posizione più forte per i prossimi due anni. La domanda è se riusciranno a fare progressi sui temi di base che alimentano la protesta, quelli legati alla globalizzazione e all’identità culturale – in senso anche positivo – di chi si sente lasciato indietro da un mondo in transizione.

Se il centro – sia democratico sia repubblicano – cercherà ancora di evitare di fare i conti con i cambiamenti tettonici che stanno guidando la rivolta degli elettori, allora la protesta non si placherà, né a destra né a sinistra, e anche una vittoria dei democratici nelle elezioni del 6 novembre, non riuscirà ad esorcizzare Donald Trump, che avrà gioco facile a mobilitare una parte della popolazione contro una classe dirigente che non ha ancora fatto i conti con i propri errori.


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