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Midterms, l’America della speranza non è tornata

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L’America della speranza non è tornata. Due anni dopo, l’America resta una Trumpland impaurita e chiusa in sé stessa, popolata di uomini bianchi spaventati dalla prospettiva di perdere il loro potere sulla loro terra. Dal voto di midterm, escono solo frammenti di speranza che ancora non riempiono il quadro, con la diversità delle vittorie delle prime donne musulmane al Congresso e della prima nativa americana, della più giovane mai eletta, del primo governatore apertamente gay. Sconfitta, invece, nel Vermont, che rielegge suo senatore Bernie Sanders, la prima candidata governatrice transgender.

I democratici riconquistano la Camera dopo otto anni, ma la loro avanzata non è uno tsunami e neppure un’onda, ma una modesta marea, appena un’“increspatura” dice con ironia la portavoce della Casa Bianca Sara Huckabee Sanders: superano i 230 seggi su 435, ne avevano 200. Al Senato, invece, i repubblicani mantengono la loro maggioranza, anzi la consolidano. E i democratici perdono tre corse simbolo, dove sono impegnati i loro astri nascenti: in Texas, Beto O’Rourke esce sconfitto dal senatore uscente Ted Cruz; Andrew Gillum in Florida e Stacey Abrams in Georgia falliscono l’obiettivo di diventare governatori, i primi neri nei rispettivi Stati. Nella corsa ai governatori, va meglio altrove: i democratici strappano ai repubblicani cinque Stati.

In proiezione 2020, Trump può essere a quest’ora più fiducioso: il voto di midterm è andato meglio per lui di quanto non era andato per Clinton e per Obama – Bush ne era uscito bene solo perché c’era stato l’11 Settembre -. E i democratici non hanno un candidato da contrapporgli: l’unica che, nel discorso della vittoria, mostra una statura presidenziale è la senatrice del Massachussetts Elizabeth Warren, forse troppo liberal, troppo anti-finanza, troppo “nativa americana”, per aspirare alla nomination e alla presidenza.

Ma lei infiammerebbe i nuovi democratici, l’America dei giovani, delle donne ai tempi di #metoo, delle minoranze, delle diversità. Cui si contrappone, arroccata nel suo fortino, l’America vecchia e bianca di Trump. Che, prima di spegnere la Fox e andare a dormire, twitta: “Grandissimo successo, grazie a tutti”; non è vero, è un’esagerazione, come tutto in Trump. Che fa persino una telefonata non dovuta di congratulazioni alla leader dei democratici, Nancy Pelosi: prove di dialogo? O presa in giro?

La seconda metà del mandato presidenziale di Donald Trump sarà diversa dalla prima: il magnate avrà a che fare con un Congresso spaccato, con una Camera che gli farà la guerra, che potrà rallentare l’iniziativa legislativa della Casa Bianca e che potrebbe progettare di avviare l’impeachment o di istituire commissioni d’inchieste su tutti i fronti di comportamento presidenziale discusso e discutibile, il Russiagate, conflitti d’interessi, elusioni fiscali, comportamenti personali. O che oitrebbe cercare il dialogo.

Lui probabilmente continuerà a fare per i prossimi due anni la cosa che sa fare meglio: campagna piuttosto che governare. Magari cercando di trarre profitto dell’incertezza che serpeggia fra i democratici: non hanno un leader e neppure un candidato, anzi ne hanno troppi, decine, e tutti ancora privi di notorietà nazionale; e non hanno una linea. Assecondare la polarizzazione, continuando a puntare su personalità “socialiste”, “liberal”, alternative, espressione delle minoranze, oppure cercare di tornare al centro, là dove, prima di Trump, si vincevano le elezioni? O’Rourke, sconfitto ma non domo, sul centro ha un’idea precisa: “Sulle strade del Texas, al centro ci sono solo gli armadilli morti”.



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