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Sugar tax. La politica non ci dica cosa bere o mangiare

Da sempre la legge di Bilancio è stata oggetto di contesa fra i componenti dei governi, i quali hanno sempre cercato di portare ognuno acqua al proprio mulino imponendo le esigenze del proprio dicastero come prioritarie rispetto a quelle degli altri. Non poteva fare eccezione un governo così atipico come quello che è nato dall’alleanza “contro natura” di leghisti e pentastellati.

Entrare nei meandri o nelle pieghe di questa manovra non è facile per l’eterogeneità e anche la contraddittorietà delle misure prese. Al contrario delle altre volte, non è facile delineare la filosofia che ispira il tutto perché forse, semplicemente, un’idea generale non c’è. Ciò che si nota è l’assoluta non convergenza verso un centro delle misure prese: alcune di tipo chiaramente clientelare, volte cioè ad accontentare fette significative dell’elettorato di riferimento delle due forze di governo; altre che, oltre al legittimo interesse particolare, sembrano solo abbozzare in modo molto vago una visione generale della società.

È però vero che lo sfondamento del tetto di deficit pattuito precedentemente con l’Unione europea in pochi punti è sembrato favorire misure potenzialmente espansive per l’economia, come sarebbe stato giusto, indirizzandosi piuttosto sulla redistribuzione clientelare delle risorse prodotte verso fasce più o meno deboli, e comunque ben definite, della popolazione. Uno di questi punti, non a caso proposto dalla Lega (che delle due forze alleate è l’unica attenta agli interessi imprenditoriali), è stato senza dubbio l’esclusione dal regime Irap delle partite Iva fino a 100mila euro. Una misura giusta, per quanto insufficiente per arginare o invertire un trend negativo dell’economia. Ma dove trovare i soldi? È qui che si è innescata una guerra fra i dicasteri che sembra essere ora terminata con l’idea, sottoscritta anche dai leghisti, di imporre una tassa sulle bevande zuccherate, tipo la Coca Cola, sull’esempio delle leggi adottate in materia da alcuni Stati americani. Che poi il ministro dell’istruzione Marco Bussetti abbia preteso per il suo dicastero, che pure tanto ne ha bisogno, la somma che verrà fuori dalla “sugar tax”, conferma non solo la lotta intestina in atto ma anche e soprattutto il fatto che sulla bontà della tassa nel governo c’è quasi unanimità.

Ed è questo l’aspetto preoccupante della questione per un liberale: l’abbozzo di politiche non clientelari, o comunque positive per la crescita, avviene per mezzo di una misura che denota una concezione eticista, pedagogica e paternalistica dello Stato che non può essere accettata. In un regime liberale non può essere infatti un’entità politica superiore a dirci cosa è giusto bere o mangiare, e in che misura. E nemmeno se la giustificazione è che ciò viene fatto per il nostro bene. Avremo anche il diritto, senza far male agli altri, di disporre delle nostre vite come meglio crediamo? Casomai sbagliando e pentendoci poi delle scelte fatte, ma errando, nella dieta e in mille altre cose, e poi correggendoci da soli e così apprendendo in modo profondo dall’esperienza. Certo, è giusto per un liberale detassare le partite Iva e anche favorire l’istruzione, ma ciò non può avvenire sacrificando poi la libertà individuale di scelta su altre questioni. La libertà è indivisibile, come ci hanno insegnato i padri. E questo dovrebbe capire soprattutto la Lega che a certa mentalità di sinistra e “politicamente corretta” su altri versanti ha saputo dire la sua.


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