Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

L’Europa unita si gioca sulla Brexit. Perché l’articolo 50 dovrà cambiare

Di Bianca Berardicurti
Cremlino, brexit

Nell’aprile 2017, all’indomani della notifica da parte della Gran Bretagna di voler recedere dall’Unione Europea, scrivevo su questa stessa Rivista investigando di possibili scenari. Tra questi, quello che trovavo più interessante, e allo stesso tempo temibile, era quello del no deal, vale a dire dell’uscita della Gran Bretagna senza il previo raggiungimento di un accordo con l’Unione Europea. A ben guardare, anche allora i campanelli d’allarme non mancavano: i due anni di tempo previsti dall’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea per raggiungere l’accordo sono ben poca cosa a fronte della dimensione delle questioni sul tavolo e rispetto alla distanza siderale delle due posizioni negoziali. Ebbene, la scadenza di marzo 2019 è oggi davvero imminente, e l’ipotesi dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea senza un accordo è tutt’altro che esclusa.

Il withdrawal agreement portato a casa da Theresa May è stato percepito come talmente deludente da aver definitivamente scatenato il caos: diversi esponenti del governo hanno rassegnato le proprie dimissioni, l’opinione pubblica non è mai stata così divisa né May così delegittimata, e l’aritmetica parlamentare suggerisce che molto difficilmente l’accordo verrà approvato dal Parlamento.

La Bank of England, dal canto suo, ha espresso il proprio laconico parere: la Uk sarà più povera a causa della Brexit, ma cionondimeno qualsiasi testo negoziale – persino questo bad deal  – sarebbe meglio di un’uscita della Gran Bretagna senza accordo. Anche il Financial Times (ferocemente critico nei confronti della Brexit) ha ritenuto di dover adottare una posizione simile: l’editorial board, con toni alquanto allarmati ha chiarito che, a fronte del rischio no deal, il testo proposto meriterebbe in ogni caso almeno un “conditional support”.

Questa la fotografia. Naturalmente, in tutto questo stridor di denti, l’idea di un secondo referendum – che a molti (compreso a chi scrive) è al principio sembrata un’ipotesi remota – ha preso nuovamente corpo. Al riguardo, considerato il fatto che intanto un secondo referendum ha senso in quanto la notifica di uscita venga revocata, l’ostacolo principale torna a essere lo scarno testo dell’Articolo 50. In altri termini: in ipotesi, avrebbe la Gran Bretagna il diritto di tornare sui propri passi e ritirare la notifica inviata due anni fa? Non essendoci alcuna indicazione sul punto nel testo del Trattato, tutte le risposte sono astrattamente possibili. Tuttavia a me pare che, essenzialmente, la risposta affermativa sia supportata da ragioni in diritto, mentre quella negativa troverebbe la propria giustificazione in argomentazioni di carattere essenzialmente politico. Proviamo a vedere.

Come avevo già avuto modo di scrivere, sia la Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969 che la Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati tra Stati e Organizzazioni Internazionali del 1986 – che rappresentano una guida per l’interpretazione dei trattati internazionali – prevedono la possibilità per lo Stato di revocare il proprio recesso prima che questo diventi efficace. Nel caso di specie, come ormai noto, il recesso della Gran Bretagna dall’Unione europea diverrà efficace allo scadere dei due anni (con o senza deal), a meno che i rimanenti Stati membri, all’unanimità, non estendano questo termine – ipotesi che appare quantomeno improbabile. Di più.

Come il professor Steve Peers, uno dei guru di noi maniaci del diritto, fa notare sul proprio blog feticcio, sebbene manchino completamente, per ovvie ragioni, dei veri e propri precedenti giurisprudenziali sul punto, esistono almeno: (i) un precedente della Corte di Giustizia europea e (ii) un parere del legal service del Consiglio, in cui si è ritenuto che la mancata espressa menzione nel Trattato della facoltà di revoca in capo agli Stati membri in contesti simili a quello dell’articolo 50 TUE (vale a dire nel contesto di procedimenti volontari) implicherebbe che la facoltà vada riconosciuta, e non il contrario.

Infine – per brevità, perché di argomenti ce ne sarebbero tanti – il principio generale di cooperazione tra Stati membri che costituisce una delle radici più profonde dell’Unione, implicherebbe che questa possibilità di ripensamento venga in ogni caso riconosciuta a un soggetto ancora formalmente ancora parte dell’Europa. Purché, evidentemente, non ne abusi. Qui, nell’abuso di questo diritto, sembra invece risiedere in larga parte la vera essenza dell’opinione che negherebbe la possibilità all’Uk di revocare la propria notice.

All’osso: può l’Europa avallare la condotta di uno Stato membro che dapprima notifichi la propria volontà di recedere e successivamente, accortosi che i negoziati non procedono nella direzione auspicata, revochi tale notifica? E ancora, ad esempio (scenario apocalittico), può rischiare l’Europa che questo medesimo Stato proceda poi all’invio di un’ulteriore notifica dopo la revoca della prima? Può l’Unione consentire che un solo Stato membro esternalizzi i costi delle negoziazioni di uscita sugli altri stati, salvo poi tornare indietro giudicando il deal raggiunto poco conveniente?

Difficilmente può darsi torto a chi sostiene che questa linea esporrebbe l’Europa a una condizione di perenne incertezza. E d’altra parte, la nozione di “abuso del diritto”, che senz’altro si configurerebbe in caso di una condotta come quella appena descritta, non solo non è facilmente sanzionabile, ma non è neppure menzionata nell’articolo 50. La questione è tutt’altro che speculativa – vedere alla voce Wightman Case.

Nel 2017, un gruppo di sette politici scozzesi dalla composizione decisamente trasversale ha introdotto un giudizio chiedendo alle corti scozzesi di pronunciarsi sul punto della revocabilità della notice di cui all’articolo 50 TUE (nota interessante: il caso è stato crowd-funded). Bene, all’esito (o quasi) di una battaglia legale piuttosto animata e molto interessante, il caso è finalmente approdato di fronte alla Corte di Giustizia Europea, la quale dovrà presto rendere la propria interpretazione, evidentemente destinata ad avere un impatto immenso nel caso Brexit.

Si noti: alla prima udienza tenutasi solo qualche giorno fa, la Corte ha dichiarato di volersi pronunciare sul punto “very quickly” – ma non ha fornito alcuna data, neppure indicativa. Non esiste certezza, ad oggi, che la decisione possa quindi arrivare prima della fatidica data di marzo 2019, né tantomeno su quale lettura dell’articolo 50 TUE propenderà la Corte. Al riguardo, però, a ben vedere almeno un indizio lo si può considerare: la Corte di Giustizia è una corte estremamente “politica”, che in passato non ha avuto timore di adottare decisioni meno rigorose dal punto di vista strettamente normativo, ma considerate più protettive della tenuta dell’Unione (da ultimo, un esempio su tutti, per gli amanti del genere: Achmea case in punto di arbitrati d’investimento).

Di una sola cosa, allo stato, sembra esserci certezza. Indipendentemente da come si svilupperanno gli eventi, questo vecchio attrezzo dell’articolo 50 TUE –  scarno, imperfetto, concepito per non essere mai utilizzato, un po’ come il terzo portiere di una squadra di calcio – bisognerà che venga riscritto, ché i tempi sono cambiati e l’uscita di uno Stato membro dall’Unione da impensabile e inverosimile sta diventando Storia.

×

Iscriviti alla newsletter