Che in politica emergano ogni tanto degli homines novi non è una novità. Che però lo facciano nel modo in cui lo ha fatto Giuseppe Conte, questa sì che è una novità che fa dell’Italia politica e di governo attuale qualcosa fra un interessante (e anche affascinante) laboratorio politico e una surreale imbarcazione ove apparentemente son saliti o sono stati fatti salire passeggeri più o meno a caso.
Conte, già prima che fosse incaricato a presiedere il governo, aveva una sua riconosciuta dignità professionale, muovendosi in quella “terra di mezzo” che si circoscrive, soprattutto nella capitale, fra studi legali e cattedre universitarie, sempre attenta pure al mondo politico ma mai con la pretesa di assumere in esso il ruolo di leadership. Ai più, e anche a chi scrive (che pure segue con attenzione le vicende della politica e della società italiane), il suo nome non diceva nulla.
Né era dato immaginare che una personalità con il suo profilo potesse ascendere, dall’oggi al domani, a così alto ruolo. Certo, dall’ideologia “dell’uno vale uno” dei pentastellati non potevamo non aspettarci un cambio di classe dirigente, ma sembrava che essi avrebbero pescato gli uomini fra attivisti e militanti. O anche fra persone a loro non ostili ma comunque con una certa visibilità pubblica. Conte non era l’uno, né aveva l’altra, ma aveva semplicemente intessuto relazioni per fini professionali con i grillini così come forse lo aveva in precedenza fatto con esponenti di altri partiti. Proprio questa sua “identità debole” lo ha forse reso gradito anche ai cofirmatari leghisti del “contratto” di governo.
Presentato come il “notaio del popolo”, gli analisti lo hanno subito dileggiato come “notaio” delle scelte prese da altrui, cioè dai due vicepremier. E in molti lo avranno consigliato pure di dimettersi per dignità personale. Conte non ha commesso questo errore e si sarà pure chiesto perché in Italia nessuno mai si dimette da nulla (al massimo le dimissioni le annuncia solamente).
E, infatti, è accaduto quel che non poteva non accadere: col suo passo felpato, con quello stile controllato da dandy, con qualche “colpo” comunicativo ben assestato (la foto di Padre Pio estratta dal taschino da Bruno Vespa), Conte ha rassicurato gli italiani, che all’anima ribellista ne alternano sempre una più tranquillizzante e strapaesana. Anche una certa intuibile furbizia che traspariva dai suoi occhi, ha fatto il resto.
Arrivato il momento del redde rationem con l’Unione europea, Conte, che non aveva mai usato i toni da Masaniello dei suoi vice (né mai li potrebbe usare con l’aplomb che veste come un secondo abito), che li rendevano inadatti a trattare coi burocrati di Bruxelles, ha assunto fino in fondo quella leadership che formalmente gli spetta. Quanto durerà e se durerà non sappiamo, ma Conte può passare un buon Natale: la sua partita personale con la storia, che gli ha affidato un inatteso ruolo da protagonista, per il momento sembra averla vinta. E con lui, dopo tutto, sembrano averla vinta anche gli italiani, almeno che non si voglia cedere ai tono catastrofistici delle vecchie élites intellettuali e politiche.