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Dibba “Che”. La stella sudamericana e la confusione terzomondista

Che il Movimento 5 stelle sia in difficoltà alle prese con i necessari compromessi che la politica di governo comporta, e con la presenza di un alleato “leale” ma sempre più ingombrante quale è la Lega, è evidente. Ma che uno, o forse più, “piani b” siano già stati messi in cantiere per riconfigurare il Movimento il giorno in cui Di Maio dovesse farsi da parte, è altrettanto chiaro dalle mosse di Alessandro Battista in terra sudamericana. Particolarmente significativo mi sembra a tal proposito il reportage-intervista dall’Honduras che oggi è uscito, a sua firma, su Il Fatto Quotidiano.

L’intervistato è l’ex presidente (l’ultimo democraticamente eletto) Manuel Zelaya Rosales, esponente del partito liberale honduregno, deposto nel 2009 da un colpo di stato militare. Certo, la vicenda di Zelaya, comunque la si interpreti, è paradigmatica, per così dire, di certe e ben conosciute e denunciate connessioni e dinamiche di potere presenti in America latina, e non da oggi. Così come l’insistere che Di Battista fa, suffragato dal presidente esautorato, dei rapporti fra settori dell’amministrazione americana, le grandi compagnie petrolifere, il potere finanziario e i militari, è parte di una vecchia retorica, un refrain, dell’ideologia terzomondista che ha corso ad esempio nei campus nordamericani (Di Battista cita opportunamente Noam Chomaky).

L’aspetto di novità e rilevante mi sembra qui invece, da una parte, l’attacco sferrato con dure parole direttamente ai democratici statunitensi, in particolare a Barack Obama e a Hilary Clinton, un tempo considerati una sorta di sponda istituzionale per certa sinistra “antimperialista”; dall’altro la decisa annessione di Donald Trump al fronte della rivolta contro il vecchio blocco di potere. È come se Di Battista tendesse a rappresentare l’anima più di sinistra dei pentastellati (cioè attenta ai deboli), in modo radicale e non istituzionale, ma anche a superare la classica idea di sinistra, sgravandola da ogni ipoteca ideologica del passato. In quest’ottica, egli può recuperare in senso lato al movimento sia posizioni liberiste e liberali come quelle di Zelaya, sia posizioni nazionaliste alla Trump intendendole come un appello ai paesi a farsi prima di tutto gli affari di casa propria. Non so quanto questo tentativo di riformulazione ideologica delle categorie della politica sia spontaneo, maturato sul campo, e per quanta parte invece faccia parte di una strategia ben precisa elaborata casomai nel “laboratorio di idee” della Casaleggio associati.

Ciò che però ritengo di poter dire è che noi tutti, cioè la più parte degli analisti e commentatori delle vicende politiche, dovremmo cominciare a fare autocritica e a porci con aria non di sufficienza verso queste posizioni: probabilmente la “confusione” mentale di un Di Battista è l’aspetto che assume oggi, in una fase di veloce trapasso della storia, la tensione verso nuove (non ancora definite o definibili) categorie della politica. Lo stesso “viaggio in Sudamerica”, descritto come qualcosa di pittoresco e goffo (e in verità Di Battista non ha fatto nulla per scrollarsi di dosso questa immagine), potrebbe far parte di un’intuizione che chi come noi ragiona con vecchi schemi è portato a trattare appunto con sufficienza (diciamo la verità: abbiamo sempre un po’ considerato l’America Latina come un appendice del nostro mondo o comunque come un luogo ove l’antioccidentalismo che la stessa mente occidentale ha partorito dovesse solo trovare una conferma nei fatti).

Non sappiamo, ovviamente, quale sarà il futuro del Movimento 5 stelle, né quello dell’ala più “di sinistra” rappresentata da Di Battista, quello che però mi sento di poter dire è che le nostre vecchie certezze più o meno ideologiche sono destinate a non tornare mai più, sommerse dalla lava incandescente di un modo di fare politica che sembra, e allo stato attuale certamente è, molto confuso.

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