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Il dilemma del (quasi) dottore Salvini

governo salvini

Il (quasi) dr., Matteo Salvini (gli mancano cinque esami dalla laurea) trascorre la fine del 2018 e l’inizio del 2019 alle prese con un dilemma etico – esistenziale – elettorale analogo a quello del prof. dr. Colenson Ridgeon protagonista di una celebre commedia del lontano 1907 di George Bernard Shaw , nonché di un fortunato film del 1958, intitolata per l’appunto The Doctor’s Dilemna. Il prof. dr. deve decidere se curare un paziente, della cui moglie è diventato amante, o un altro, forse più meritevole e più bisognoso.

Al pari del prof. Colenson Ridgeon, il suo dilemma è triplice. Sotto il profilo etico, ha assicurato al suo popolo – la Lega che lo ha eletto segretario – che lo ha fatto diventare vice presidente del Consiglio e ministro e in prospettiva gli potrebbe aprire la strada per farlo essere presidente del Consiglio – di non mettere le mani nelle tasche degli italiani in generale e in particolare di quei pensionati del centro nord che costituiscono il nerbo duro del Movimento a sua guida e per i quali nel lontano 1995 la Lega fece cadere il primo governo esistenziale; sull’insistente richiesta della sua “controparte” nel contratto di governo, ha aumentato la pressione fiscale e sta costringendo i Comuni, specialmente quelli del centro nord a guida leghista, ad aumentare i loro tributi o a ridurre i servizi ai cittadini.

Sotto il profilo esistenziale, il dilemma è un dubbio profondo. Da un lato, deve fare la faccia allegra e fiduciosa e dichiarare, ad ogni occasione possibile, che il governo (di cui fa parte) resterà in carica per cinque anni, a cui ne seguiranno altri cinque dopo un nuovo successo elettorale. Da un altro tocca con mano, il logorio della sua controparte nel contratto di governo, il Movimento Cinque Stelle (M5S). È un logorio che si percepisce più nei corridoi del potere, soprattutto nelle aule parlamentari, che nei sondaggi dove M5S supera ancora il 25% di coloro che intendono andare a votare nelle consultazioni europee del prossimo maggio. Appare, però, sempre più netta la fronda, ove non la netta opposizione, dell’onorevole signor Luigi Di Maio, l’unico capo politico investito dall’alto dal fondatore e garante del M5S non eletto dalla base o dai delegati di quest’ultima. I nodi tra le varie anime – come si diceva un tempo – stanno venendo al pettine: quella governativa sta difficilmente imparando l’arte del compromesso per gestire la res pubblica e darle un orientamento. Quella movimentista di destra è sempre più vicina a vecchi dogmi del M.S.I ormai abbandonati pure da chi ne faceva parte. Quella movimentista di sinistra si riallaccia alle tradizioni sessantottine che hanno ammaliato i loro genitori. Sino a quando queste anime – a loro volta divise in correnti – potranno convivere? Il detonatore potrebbe essere la riforma costituzionale di cui vagheggia il capo politico signor Di Maio, in particolare l’abrogazione dell’art.67 della Costituzione, o la sua riformulazione, per abolire o depotenziare quel divieto al vincolo di mandato che fa parte di tutte le democrazie occidentali. Un numero crescente di parlamentari del M5S sono insofferenti di essere agli ordini dell’investito di turno; all’attuale hanno già affibbiato il nomignolo di Napoléon Le Petit. Se il M5S implode – come dicono gli auguri – che gioia e soprattutto che convenienza c’è a restare loro “controparte” in un contratto pieno di buche e di trappole.

Sotto il profilo elettorale, il dubbio più profondo riguarda il comportamento, nei confronti della Lega, delle categorie più colpite dalla legge di Bilancio, al fine principalmente per il M5S di mostrare uno scalpo simbolico ininfluente sui conti pubblici. Il complesso meccanismo di raffreddamento dell’adeguamento degli assegni al costo della vita, colpisce duramente quel ceto medio a redditi anche bassi che al centro nord ha sempre votato Lega. La scure è ancora più forte su coloro che subiranno i tagli del cosiddetto contributo di solidarietà. Questi pensionati – gli dicono i suoi consiglieri – rientrano nel club del 4,36 per cento di contribuenti che versano il 36,52 per cento di tutta l’Irpef; aggiungendo anche i pensionati tra 4 e 5 volte il minimo, la cui rivalutazione è pari al 77 per cento dell’inflazione, si arriva al 12,09 per cento di contribuenti che però versano il 57,11 per cento di tutta l’Irpef. Tassati e tartassati, dunque. La Lega può permettersi di alienarseli?

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