Forse ha ragione il senatore Zanda quando dice che l’umiliazione del Parlamento cui stiamo assistendo in queste ore è figlia di una visione peronista delle istituzioni e dunque di un sistematico disprezzo per la democrazia rappresentativa. Ma c’è un altro fattore che spiega perché la manovra sia stata presentata solo all’ultimo minuto, dopo una straordinaria sequenza di rinvii: la obiettiva difficoltà di questa maggioranza a fare i conti con la realtà.
Non esiste un modo per rendere compatibili le promesse elettorali, anche se ormai molto ridimensionate, con la realtà delle risorse che sono sempre limitate. Qualche presunto economista della maggioranza prova tutt’ora a raccontare la favola che le risorse non sono scarse, che il debito pubblico è un’invenzione dell’Europa, che tutti i problemi si risolvono con la stampante della banca centrale.
Ma la verità è anche che la politica comincia quando si devono fare delle scelte sulle priorità perché non si possono soddisfare tutte le esigenze. Sotto questo profilo, il problema del governo non è solo l’inesperienza economica, ma è più profondo perché riguarda l’essenza stessa dell’agire politico, il modo in cui si definisce l’identità di un partito politico o di una coalizione di governo. Se si vuole rendere più generoso il welfare, mandando in pensione le persone a 62 anni e dando 780 euro a 5 milioni di poveri, bisogna sapere che c’è una conseguenza ineluttabile: più tasse. E questo infatti è ciò che è emerso nel lungo confronto con la Commissione Europea: più tasse, sotto forma di clausole di salvaguardia, per ben 23 miliardi nel 2020 e 29 miliardi nel 2021.
Si potrebbe pensare che il governo stia mettendo in campo un classico progetto “tassa e spendi” da vecchia sinistra. E, dal punto di vista della sostanza economica, è esattamente così. Ma non lo è dal punto di vista della identità politica perché i partiti di governo si ostinano a negare il nesso evidente fra più spesa e più tasse.
Da questo problema irrisolto, che riguarda innanzitutto l’identità politica dei governanti, nascono i ritardi, il tentativo di calpestare le funzioni degli organismi di valutazione indipendenti, come la Ragioneria, l’Inps e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, e, soprattutto, la volontà di sottrarsi al confronto parlamentare.
Non si vuole ammettere che dalla montagna di demagogia sulle pensioni d’oro sono venute coperture per solo 70 milioni di euro. Non si vuole ammettere che l’abolizione della riforma Fornero è ormai un miraggio. Non si vuole ammettere che le coperture vere vengono dai quei vecchi arnesi della politica di bilancio contro cui si sono costruite infinite narrazioni complottistiche: il blocco delle indicizzazioni delle pensioni, il blocco – o ritardo – nel turnover del personale pubblico, i tagli alla ricerca, agli investimenti pubblici, agli incentivi per gli investimenti privati, alla digitalizzazione. Non si vuole ammettere che, dopo anni di onestà sguaiatamente gridata, si è aumentato il tetto per gli appalti pubblici senza gara e si sono premiati gli evasori con la reintroduzione di quel condono che aveva generato scandalo ed era stato espunto dopo la prima versione dalla manovra. Non si vuole ammettere che si è aumentata dal 12 al 24% l’aliquota d’imposta sul no profit e dunque su tutte quelle organizzazione che si occupano delle fasce più deboli della popolazione. Non si vuole e non si può ammettere che mesi di dichiarazioni spavalde dei leader politici hanno causato l’aumento dello spread e hanno reso l’Italia più fragile finanziariamente e più isolata nel contesto europeo e internazionale.
Per questo insieme di motivi, il maxiemendamento non poteva che arrivare all’ultimo minuto, a Natale, nella speranza che gli italiani pensino ad altro e non si accorgano di ciò che succede in Parlamento. Ma il fatto positivo è che tutto il paese comincia a fare i conti con la realtà.