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Industria 4.0, tutti i limiti del credito d’imposta per ricerca e sviluppo

Di Gabriele Molinari

Mentre si trascina il dibattito sulla manovra del popolo ci piace soffermarci sullo stato di applicazione di un altro provvedimento, varato nella scorsa legislatura e sul quale ancora oggi c’è (tutto sommato) scarsa chiarezza. Parliamo del credito d’imposta per Ricerca e Sviluppo, misura di incentivazione fiscale contenuta nel pacchetto Impresa 4.0: uno strumento di potenziale interesse per le nostre aziende, sulla cui adozione – almeno in termini di numeri assoluti – pesa tuttavia probabilmente una endemica sfiducia “all’italiana”, che descrive bene un nostro tipico modo di pensare ed agire.

Alcune brevi premesse tecniche. La misura, peraltro cumulabile con un’ampia serie di incentivi fiscali di diversa natura (Nuova Sabatini, Super e Iper ammortamento ecc.), si rivolge a una platea che include i soggetti titolari di reddito d’impresa “indipendentemente dalla natura giuridica, dalla dimensione aziendale e dal settore economico in cui operano”. Si tratta di imprese che svolgano attività di Ricerca e Sviluppo in proprio o per terzi, o che a loro volta la commissionino.

Il credito si computa su una base fissa data dalla media delle spese in Ricerca e Sviluppo sostenute negli anni 2012-2014, e si compensa in sede di pagamento di imposte e contributi. Risultano agevolabili molti tipi di spese (relative a ricerca fondamentale, ricerca industriale e sviluppo sperimentale), includendosi – tra gli altri – i costi per un personale altamente qualificato, i contratti di ricerca con università, enti di ricerca, imprese, start up e Pmi innovative, le quote di ammortamento per l’acquisto di strumenti e macchinari. La misura, recita la norma, è applicabile per le spese in Ricerca e Sviluppo che saranno sostenute nel periodo 2017-2020.

E qui viene il punto, cui facevo riferimento in premessa, del limite “culturale” con cui il beneficio si scontra. Spesso i consulenti, in un’ottica assai garantista (anche un po’ di se stessi), scoraggiano i clienti, cioè le aziende, ipotizzando tetri scenari di verifiche in cui sarebbe tutto sommato arduo, spiegano a) ascrivere le voci di spesa sostenute alle voci indicate in norma, e soprattutto b) ricostruire con puntualità le spese sostenute nel triennio 2012-2014, sulla base delle quali si calcola appunto la base fissa del credito detraibile.

L’idea stessa che possano sorgere conflitti con l’Autorità preposta al controllo diventa cioè un elemento fortemente dissuasivo all’accesso al beneficio; conseguentemente, il timore di una eventuale contestazione si dimostra infine assai più forte dell’interesse al possibile risparmio fiscale. Se in questo atteggiamento da principio rinunciatario ci fosse soltanto la scrupolosa verifica della mancanza dei requisiti necessari per accedere alla predetta misura non vi sarebbe nulla di male, anzi.

Tuttavia pare più frequente un diniego fondato sulla mera sfiducia “di sistema” da parte delle aziende: che tanto si rivolge ai controllori quanto principalmente a loro medesime, nella veste di controllate, risultando spesso assai poco convinte delle scelte operate e della relativa qualificazione da un punto di vista tecnico.

“Preferisco rinunciare”, insomma, “poichè non sono convinto di poter dimostrare che quel processo costituisca R&S”. Di fronte a un dilemma come questo, certamente non banale, servirebbero consulenti capaci di fugare il più possibile i dubbi dell’imprenditore, aiutandolo a districarsi nel caos magmatico di norme e statuizioni tecnico/giuridiche – impresa, va detto, tutt’altro che semplice – e al limite dissuadendolo, sì, ma con piena consapevolezza della situazione reale dell’azienda (attraverso un’analisi che potrà comunque costituire un passaggio virtuoso e premiante in termini gestionali); ancor più importante, tuttavia, sarebbe l’intenzione di capire – da parte dell’imprenditore medesimo – cosa sia accaduto, cosa stia accadendo e soprattutto cosa potrà accadere nella e alla propria azienda.

Un impegno che implicherebbe una forte capacità di concentrazione, di comprensione dei processi e delle opportunità, e quindi uno sforzo di indiscutibile utilità ma davanti al peso del quale si è tuttavia spesso portati a rinunciare in partenza: per scarsa fiducia nel buon esito finale, senza dubbio, ma forse ancor prima per scarsa fiducia in se stessi e nella medesima capacità di rappresentarsi, di manifestarsi consapevoli e credibili.

Un atteggiamento in fondo non dissimile dal rifiuto preventivo di alcune amministrazioni pubbliche di fronte ad importanti opportunità di investimento o di organizzazione di eventi internazionali, per quella che si stima ormai essere la conclamata incapacità del nostro sistema a gestire processi complessi. Un sentimento di sfiducia che è proprio dei politici, dei cittadini che li votano e delle stesse aziende, e che si sintetizza fondamentalmente in una parola: nichilismo.
Nichilismo che se non fa bene a politica e cittadini, certamente priva anche le imprese di opportunità importanti. Dove l’opportunità principale non è poi tanto il beneficio fiscale cui si decida di rinunciare, quanto la capacità stessa di credere nel proprio lavoro, di riconoscerlo, e quindi in definitiva di investire convintamente nel futuro.

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