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Quota 100 a tutti i costi ? Facciamo due conti

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La riforma Pensioni, nota come riforma Fornero ed entrata in vigore nel gennaio 2012, ha apportato profondi cambiamenti al nostro sistema pensionistico sia di carattere sociale, come la questione esodati, che sono quei lavoratori che hanno subito, retroattivamente, l’innalzamento dell’età pensionabile pur avendo già stipulato accordi di incentivo all’esodo (prepensionamento) o pur trovandosi a pochi anni dalla pensione di vecchiaia o anzianità contributiva. Otto le salvaguardie Inps finora approvate per tutelare i lavoratori rimasti ancora senza pensione né stipendio. Le pensioni oggi sono ancora soggette a novità,regole, controversie e l’attuale legge di bilancio, sia pur attraverso un ddl, prevede ulteriori modifiche. La ormai famosa quota 100 ossia per richiedere il pensionamento occorre la somma di 38 anni di contributi e 62 anni di età, manca ancora oggi di una definizione chiara ma soprattutto è già certa una ricaduta deleteria sul sistema pensionistico.

Intanto è fuorviante – nel bene come nel male – mettere a confronto i 62 anni di Salvini con i 67 attribuiti alla riforma Fornero. Non è vero, infatti, che, con le norme del 2011 sia richiesto a tutti un requisito anagrafico pari a 67 anni (in crescita automatica in corrispondenza della dinamica dell’attesa di vita). Ciò vale per il pensionamento di vecchiaia (quando è sufficiente il concorso di 20 di versamenti per andare in quiescenza), mentre i 62 anni annunciati (come età minima per raggiungere quota 100) si riferiscono al trattamento anticipato di anzianità. Infatti si è fatta molta confusione tra pensione di vecchiaia e pensione di anzianità.

Si tratta di due istituti distinti anche nelle finalità: la vecchiaia ha come parametro principale l’età anagrafica; nell’anzianità contano i versamenti effettuati o riconosciuti spesso a prescindere dall’età (come adesso) oppure con un correttivo anagrafico più ridotto. Non è plausibile, quindi, che nel nuovo ordinamento previsto dalla riforma gialloverde, venga soppressa le pensione di vecchiaia, perché se così fosse vi sarebbe una gran parte del mondo del lavoro (pensiamo alle donne che in grande maggioranza sono costrette ad avvalersi della prestazione di vecchiaia perché hanno storie contributive più brevi e discontinue, in media pari a 25,5 anni) che non riuscirebbe mai a varcare l’agognata soglia.

Ciò premesso, anche nell’ordinamento vigente, è possibile anticipare l’accesso al pensionamento (tanto che attualmente è superiore – soprattutto tra i lavoratori maschi e residenti al Nord – il numero di coloro che si avvalgono dell’anticipo rispetto a coloro che ricorrono al trattamento ordinario di vecchiaia: nel lavoro dipendente privato, nei flussi correnti, su 100 pensioni di vecchiaia ve ne sono 201 di anzianità). In sostanza, nel 2019-2020, secondo la normativa vigente, è possibile andare in pensione anticipata a 43 e 2 mesi se uomini (a 42 e 2 mesi donne) a prescindere dall’età anagrafica.

Vero è che l’età effettiva alla decorrenza in media è risultata essere – è un dato di fatto non un requisito – intorno ai 62 anni. Inoltre, se vi fosse un tetto per la contribuzione figurativa utile a “fare anzianità” non vi è chi non veda come i periodi richiesti, oggi e domani, tendano ad avvicinarsi e quasi a coincidere. Va poi ricordato che ora vi è un contesto complessivo che ha mutato l’assetto delineato dalla riforma Fornero. L’Ape sociale (che avrebbe bisogno di rifinanziamento ma ancora incerto ) consente ai disoccupati e agli appartenenti a 15 categorie di lavori disagiati o soggetti a condizioni familiari particolari, di ritirarsi a 63 anni (con una contribuzione ridotta). Con l’Ape volontaria si può ottenere un prestito conveniente, in anticipo sul trattamento spettante, a 63 anni con 20 anni di versamenti.

Se coloro che hanno diritto all’Ape sociale fossero anche ”precoci” (titolari di 12 mesi di versamenti prima dei 19 anni di età) potrebbero avvalersi dell’uscita dal lavoro con 41 anni di contributi. Normative più favorevoli valgono per i lavoratori sottoposti a mansioni usuranti. A regime 200mila lavoratori fruiranno, poi, del trattamento riservato ai c.d. esodati (ovvero vanno in quiescenza con le regole vigenti prima della riforma Fornero). Ma la questione vera oggi sono e rimangono le risorse per finanziare la quota 100, che in prima battuta alla Camera prevedeva 7 miliardi per il 2019 e 8 miliardi per il 2020 che comunque dovrà essere attuata con un altro provvedimento, sia esso un disegno di legge collegato (il quale non si avvale del contingentamento riservato alla sessione di bilancio) o un decreto legge successivo all’approvazione della manovra, sempre che gli sia riconosciuto il carattere di urgenza.

Inoltre, si ribalta un concetto di diritto costituzionale: non si può condizionare il riconoscimento di un diritto soggettivo all’interno di un limite di spesa, perché o si accontenta chi arriva prima fino a quando le risorse non sono finite, oppure è un provvedimento sperimentale perché strumenti di gestione finanziaria eccezionali sono stati previsti in altre occasioni, ma si trattava però di piccoli gruppi di persone interessate. Diventerebbe, insomma, molto complesso applicare questo metodo in un’operazione che coinvolge centinaia di migliaia di persone.

La maggior parte delle persone che potranno aderire a quota 100 nel triennio 2019-2020-2021 (ammesso che sia strutturale la norma e appunto a termine) non vedrà l’ora di andare in pensione e l’impatto sarebbe difficilmente sostenibile – mentre dal 2022 la maggior parte di quelli che andranno in pensione avranno la quota più rilevante della pensione calcolata col sistema contributivo (il 65% dell’assegno) e quindi avrà un abbattimento reale del 20% rispetto alla quota maturata ai 67 anni. Il che significa che le persone ci ragioneranno un po’ di più . E come giustamente afferma Tito Boeri è escluso che si possa evitare un aumento dell’età pensionabile. Una soglia che, legata per legge alla speranza di vita, dovrebbe arrivare nel 2019 a 67 anni, cinque mesi in più rispetto a ora. Se saltasse l’adeguamento ci sarebbe un impatto sui conti stimabile in 141 miliardi di euro. Ma non sarebbe solo un problema di tenuta dei conti pubblici visto che le pensioni sarebbero più basse: quindi questo stop all’aumento progressivo dell’età pensionabile non è neanche nell’interesse dei lavoratori più deboli.



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