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Sessantotto. Il bilancio dell’anniversario di un inganno politico-culturale

È tempo di consuntivi. Anche culturali. E, dunque, non può sfuggire ad una valutazione l’anniversario che è stato ampiamente, ma tutt’altro che originalmente, celebrato quest’anno: il cinquantenario del Sessantotto. Molti libri, sterminati articoli, innumerevoli ricordi e confessioni, alcuni convegni perlopiù ripetitivi e acritici, nessuna (o quasi) voce controcorrente per ricordare l’evento che, comunque la si pensi, ha influito sulle coscienze, i costumi, le scelte individuali e collettive in Occidente. E, nel contempo, ha inaugurato uno “stile” politico dal quale è in parte dipesa la decadenza della vita pubblica.

Alla fine delle “commemorazioni”, dunque, perché sostanzialmente di questo si è trattato, è forse possibile se non proprio mettere un punto fermo, almeno prendere le distanze dalla retorica e guardare con occhi meno inclini al riconoscimento di un mito fasullo che pur tuttavia ha contribuito a modificare punti di vista, orientamenti e comportamenti.

Che il movimento politico-culturale del Sessantotto abbia condizionato la percezione della realtà attraverso la contestazione dei valori cosiddetti tradizionali è indiscutibile. Ma, altrettanto indubitabile, è che non ha operato un rinnovamento sociale, semmai ha favorito la regressione dei rapporti nell’ambito sia della sfera individuale e familiare che sociale. Insomma, non ha prodotto un “ordine nuovo”, ma un disordine permanente in virtù dell’egemonia esercitata soprattutto da intellettuali che sono finiti poi fagocitati dai meccanismi che essi stessi avevano innescato. Così la contestazione che avrebbe dovuto incidere sui processi di formazione culturale (nacque inizialmente in ambito universitario, prima a Berkeley e poi, trasferitasi a Parigi, dilagò in tutta l’Europa occidentale) è diventata una “moda” che ha prodotto consumi diversi e favorito la fruizione di stili, linguaggi ed atteggiamenti da parte delle giovani generazioni di cui il capitalismo, con sollecita cura avendone compreso il potenziale sociale, si è servito per addomesticarle ai propri fini. Un capolavoro di imbecillità sfruttato dalla borghesia che ha sostanzialmente “guidato” il Sessantotto, come aveva sottolineato anche Pier Paolo Pasolini, per capovolgerne gli assunti ed utilizzarlo in vista dell’asservimento ai valori che sosteneva.

In altri termini, la contestazione giovanile è stato un colossale inganno ed il fatto stesso che “borghesemente” la si celebri periodicamente lascia intravedere il suo stesso fallimento. Non si è trattato, dunque, di un movimento di emancipazione giovanile – come pure abbiamo riletto quest’anno in tanti libri e memorie – né tantomeno “proletario” nell’accezione politica e sociologica del termine: è servito, verosimilmente, alle classi dirigenti – intellettuali, politiche e finanziarie – per cavalcare, addomesticare e sottomettere le generazioni che immaginavano una concreta rivolta e forse taluni hanno anche provato a perseguire lo scopo. Coloro che hanno immaginato di utilizzare l’onda protestataria fino alle estreme conseguenze hanno dato vita a fenomeni di rigetto radicale su cui si è fondato il terrorismo.

Insomma, il Sessantotto, lungi dall’analizzarlo come si fa solitamente, dovrebbe essere relegato nel retrobottega della storia o, nella migliore delle ipotesi, negato in blocco come movimento innovatore. Con le conseguenze nichiliste che sono il suo vero lascito, oltretutto, ci ritroviamo a vivere in una società più egoista, meno solidale, più materialista, oltre che pervasa dal laicismo amorale che la sta consumando. Un risultato sul quale sarebbe stato bene innescare una discussione che, malauguratamente, per viltà intellettuale o per conformismo radicato, è del tutto mancata.

Ciò non vuol dire, come si accennava, che il Sessantotto non abbia comunque inciso nel nostro modo di pensare e di vivere, almeno superficialmente e non sempre permeando tutti gli strati della società. Ha penetrato nei costumi, ma non ha prodotto una rivolta contro il determinismo modernista come era pure lecito attendersi. È stata una sorta di follia collettiva, una corsa alla dissoluzione della quale hanno beneficiato paradossalmente soltanto i poteri reali, intendo dire quelli economico-finanziari che hanno saputo profittarne anche per mettere al guinzaglio la politica.

Un risultato rilevante, indubbiamente, ma che ha impoverito moralmente e culturalmente le società occidentali legittimando perfino i fenomeni politici più aberranti come il maoismo, il terzomondismo comunista, l’egualitarismo sfruttato da chi era ed è “meno uguale” degli altri.

Uno sguardo alle mode ed ai costumi culturali è molto più interessante di noiose e lunghe disquisizioni sociologiche al riguardo. Di recente, Roberto de Mattei, lucido e profondo studioso cattolico, in una disamina molto accurata del Sessantotto apparsa sul periodico Corrispondenza romana, ha scritto: “Il Sessantotto non fu una rivoluzione politica, ma una rivoluzione dei costumi che intendeva ‘liberare’ l’uomo dai vincoli della morale tradizionale per costruire una ‘civiltà non repressiva’ in cui l’energia vitale potesse spontaneamente esprimersi in una nuova creatività sociale. Il marxismo andava superato perché limitava la sua offensiva rivoluzionaria all’aspetto strettamente politico senza incidere su quello più propriamente familiare e personale. Occorreva invece portare la rivoluzione nella vita quotidiana per trasformare l’essenza stessa dell’uomo senza limitarsi all’aspetto esteriore e superficiale a cui sembrava condannarla la prospettiva marxista classica. Lo slogan ‘è vietato vietare’ esprimeva il rifiuto di ogni autorità e di ogni legge, in nome della liberazione degli istinti, dei bisogni, dei desideri. La libertà sessuale e la droga furono i due ingredienti per affermare la nuova filosofia di vita”.

Ecco quanto è stata “produttiva” la contestazione e quel che da essa raccogliamo non è altro che la polvere delle illusioni di un tempo trasformatesi in incubi.

Che poi essa sia stata, come pure si pretende, “spontanea” è tutto da verificare. Forse inizialmente, nelle intenzioni dei promotori, soprattutto a Berkeley, ma in seguito, rapidamente, si è trasformata in un’altra cosa. Lo “spontaneismo”, reale o supposto, insomma,  è divenuto irrilevante, quando non utilizzato dai “padroni del potere” (economico ed editoriale soprattutto) per illudere masse giovanili e condurle ad ovili più controllabili.

Insomma, il Sessantotto è nato male ed è finito peggio. Che il suo brodo di coltura sia stato il malessere di giovani generazioni incomprese dalle classi dirigenti del tempo ed in particolare dagli intellettuali  che ne hanno strumentalizzato la rabbia ad altri fini, come quello di favorire la penetrazione e l’egemonia marxista nelle società affluenti, è innegabile. Altrettanto certo è il “valore” non edificante dell’obiettivo. Demolire senza avere un progetto di ricostruzione – al di là della vaga idea di realizzare una società più o meno sovietizzata alla quale peraltro credevano poco gli stessi protagonisti o di favorire la legittimazione del “libero amore” (veramente minimalista come obiettivo) con tutto quello che ne deriva (aborto, dissoluzione della famiglia, negazione dello Stato, della nazione, della comunità e della religione) – assomiglia parecchio ad un fallimento programmato.

Il Sessantotto non è stato più di questo. A meno di non voler glorificare il nichilismo che s’è portato appresso e che è stato ben “valorizzato” da chi non aspettava altro per imporre un modello sociale che si è fatto “liquido” fino all’inconsistenza. Tuttavia, lo “spirito del Sessantotto”, ben al di là delle aspirazioni delle sue avanguardie, ha permeato quasi  tutti gli ambiti, perfino quelli ritenuti più inaccessibili. Anche nella Chiesa, a essere sinceri, ha prodotto “guasti” i cui effetti in cinquant’anni hanno favorito il deprecabile (e per ora inarrestabile) fenomeno di scristianizzazione denunciato da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI che si sono battuti per una nuova evangelizzazione soprattutto dell’Europa e dell’Occidente.

Sempre de Mattei, ha rilevato: “La Rivoluzione del Sessantotto ha avuto successo perché ha trasformato la mentalità e la way of life dell’uomo occidentale e i suoi artefici hanno occupato dei ruoli chiave nella politica, nei media, nella cultura. Ma la Rivoluzione del Sessantotto era condannata al fallimento per la dinamica interna che caratterizza tutte le rivoluzioni”. Dunque, in rapporto a chi gli si è opposto – ad esempio la destra conservatrice (nel senso tutt’altro che negativo del termine) – si pone il problema di una valutazione oggettiva e valoriale che non può essere evitata sostenendo che essa avrebbe perduto un’occasione, soprattutto politica, avversando il movimento.

Non è così. Semmai è stata un’occasione perduta nel senso che non ha saputo proporre un’alternativa di sistema “controrivoluzionaria” a quella ispirata dalla sinistra culturale posto che la sinistra politica in un primo momento era del tutto assente quando non addirittura ostile al movimento contestatario. La destra si sarebbe dovuta porre il problema dell’insoddisfazione giovanile di fronte alla crescente influenza del consumismo caratterizzante la società affluente della metà degli anni Sessanta e del dominio del materialismo pratico scambiato per benessere. Un’operazione antropologica, dunque, che è mancata e della quale avvertivano l’urgenza – non sembri paradossale – intellettuali diversissimi come Evola e Pasolini.

La crescente egemonia delle logiche mercantili ha finito per travolgere lo stesso movimento giovanile attratto dalla sola prospettiva che gli si offriva: la società degli eguali, di stampo marxista, i cui referenti più attraenti erano la Cina maoista ed il comunismo caraibico simboleggiato dal castrismo e dall’icona di Che Guevara.

Sul piano dei valori, dunque, la destra è stata assente o, comunque, ha inciso poco o niente. Si è come ritagliata addosso l’abito del “guardiano del sistema”: legge e ordine, declinate in bandiera banale, non potevano che essere funzionali ad una conservazione dell’esistente che andava invece radicalmente cointestato non alla maniera dei “sessantottini” propriamente detti, ma agitando idee radicalmente opposte al totalitarismo egualitario e consumistico strisciante che annichiliva le anime dei giovani promettendo un paradiso in terra impossibile.

La contestazione è stata un  fallimento antropologico soprattutto, sfociato, purtroppo, quando vide esaurirsi l’armamentario dialettico desunto da alcuni decadenti filosofi della Scuola di Francoforte e da un discutibile guru come Marcuse, nella lotta armata. Insomma, a leggerlo cinquant’anni dopo, può riassumersi in un indigesto pasticcio di approssimazione  intellettuale e di incapacità politica funzionali entrambi a quello stesso sistema che i sessantottini si proponevano di abbattere. Poi, i capi, almeno in Italia e in buona parte d’Europa, sono diventati talmente organici al sistema contestato da difenderlo e diventarne a loro volta esponenti ragguardevoli nei campi più disparati, ma soprattutto laddove il “pensiero unico” – vero approdo della contestazione – ha potuto dispiegare la sua forza.

Da ultimo un pensiero al Sessantotto italiano. È vero che esso si è manifestato congiuntamente a quello di altri Paesi europei e dopo i sommovimenti di Berkeley, ma è altrettanto vero che ha avuto caratteristiche particolari soprattutto se si guarda agli sviluppi successivi in ragione della situazione completamente diversa rispetto al terreno di coltura dei campus americani dove è sedimentato e si è sviluppato.

Insomma in ogni Paese è stato sostanzialmente diverso. In Italia ha manifestato i soliti caratteri provinciali tipici di una società subalterna culturalmente. Nei prodromi è stato lontanissimo anche da quello tedesco, per esempio, ma nelle conseguenze possiamo considerarlo assolutamente analogo: la matrice terroristica, non a caso, incubata dai residui del Sessantottismo, si è dispiegata in Italia e Germania parallelamente. Non è un motivo su cui l’indagine si è particolarmente soffermata. E chissà perché…

 

 

 

 

 

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