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Al Congresso Usa 9 membri su 10 sono cristiani. La controtendenza di una narrazione secolarista

Mentre il centosedicesimo Congresso degli Stati Uniti si appresta ad includere al suo interno le prime due donne musulmane, un dato che emerge in maniera schiacciante è quello che riguarda la presenza di rappresentanti cristiani. Nove membri su dieci, infatti, tra la Camera e il Senato sono cristiani e si identificano o con una Chiesa o con un gruppo cristiano, corrispondenti all’88,2 per cento del totale. Una cifra sovrastimata rispetto alla popolazione, dove il numero di quanti si dichiarano cristiani è pari al 71 per cento. Di questi, sono cattolici il trentadue per cento degli esponenti della Camera e il ventidue per cento al Senato, un dato peraltro superiore alla popolazione statunitense legata alla Chiesa di Roma, che corrisponde al ventuno per cento del totale.

Rispetto al precedente assetto, in cui i cristiani toccavano il novantuno per cento dei membri del Congresso, il dato è in lieve diminuzione. Quindi si tratta di una composizione, quella uscita dalle elezioni di midterm del 2018, che oltre a contare un numero crescente di presenza femminile è anche leggermente più diversificata dal punto di vista religioso, seppure si tratti di cifre minime: se i cristiani sono quattrocentosettantuno, infatti, gli ebrei sono trentaquattro, quattro in più della presidenza Obama. Gli induisti e i musulmani si fermano invece a tre, mentre i buddisti sono due, una cifra pari a quella degli unitariani universalisti. Diciotto al contrario sono le persone che hanno risposto con un “non so”, il 3,4 per cento, mentre a descriversi come ufficialmente ateo c’è solo una persona, la senatrice dell’Arizona Kyrsten Sinema, eletta al Senato dopo tre mandati alla Camera. Cifre, queste ultime, viceversa sottostimate rispetto alla situazione presente fuori dal Congresso, dove il ventitre per cento della popolazione negli Stati Uniti si definisce ateo, agnostico, oppure a domanda risponde con un “nulla in particolare”. Dati, questi altri, molto vicini a quanto accade in Europa, dove il ventiquattro per cento dichiara, almeno oggi e a prescindere dall’educazione ricevuta, di non sentirsi affiliato a nessuna religione. In paesi cattolici come Italia, dove i cattolici sono il sessanta per cento e il quaranta per cento di questi si definisce praticante, oppure Portogallo, Austria e Irlanda gli atei rappresentano il quindici per cento.

Tra i protestanti, i gruppi più numerosi sono quelli dei battisti, dei metodisti oppure, pari fra loro, degli anglicani, dei presbiteriani e dei luterani. Sottorappresentati i pentecostali, che nonostante corrispondano al cinque per cento della popolazione americana, al Congresso si attestano solamente allo 0,4 per cento, con due rappresentanti della propria fede. I numeri, raccolti dal Pew Research Center, organizzazione no profit e indipendente, affrescano così un quadro da cui emerge il fatto che la connotazione religiosa rappresenta ancora un elemento fortemente centrale nella guida politica del Paese, nonostante la secolarizzazione di cui si parla spesso per ciò che riguarda le abitudini religiose tra la popolazione. Anche se in realtà, ad essere precisi, il questionario non misura il livello di credenza o di pratica religiosa dei singoli deputati e senatori, il che lascia anche intendere che non è possibile affermare quanto il singolo rappresentante compia le proprie scelte politiche a partire dalla corrispondenza o meno delle stesse con la propria fede. Per quanto riguarda i diversi schieramenti, per esempio, tra le fila dei repubblicani si possono contare centotrentasei  protestanti e cinquantaquattro cattolici, mentre i democratici annoverano tra i loro esponenti novantasette protestanti e ottantasette cattolici.

Cifre insomma che manifestano un’orientamento religioso prevalente ben definito nell’organo legislativo del governo federale americano. Nei giorni scorsi, tuttavia, tra le numerose nuove donne che andranno a rappresentare i cittadini americani, un dato quest’ultimo passato fortemente in primo piano, ha fatto discutere la vicenda della quarantaduenne musulmana che ha chiesto di poter giurare su una copia del Corano, a differenza del tradizionale giuramento sulla copia della Bibbia di Thomas Jefferson. Rashida Tlaib, appartenente ai Democratici socialisti d’America, gruppo socialista che si colloca alla sinistra dei democratici, è infatti la prima parlamentare di origini palestinesi nella storia del Paese. Il regolamento americano prevede che il giuramento venga effettuato su un testo sacro, limitandosi però a stabilire le parole da pronunciare e non quale testo specifico. La richiesta della deputata, rappresentante del Michigan, era di giurare su una copia del testo islamico a sua volta appartenente all’autore della dichiarazione d’indipendenza americana. “I padri fondatori avevano infatti una profonda conoscenza di tale religione, diversamente da molti parlamentari americani attuali”, è stata la provocazione della deputata palestinese appena eletta, che però ha poi cambiato idea soltanto pochi giorni dopo, tra le critiche di alcuni esponenti repubblicani, volti a sostenere l’incompatibilità dell’Islam con la storia e le regole della società americana. Una vicenda che si è conclusa con la decisione che la donna giurerà su una copia del Corano appartenente alla sua famiglia, indossando tuttavia un abito tradizionale musulmano, il thawb. Assieme a lei, tra le fila del Congresso siederà anche la trentasettenne somala Ilhan Omar, giunta negli Usa nel 1996 dopo essere scappata dalla guerra e aver vissuto in un campo profughi in Kenya. Oltre a essere di fede musulmana, una caratteristica particolare della trentasettenne, che indossa pubblicamente con fierezza il proprio hijab, è che possiede ancora lo status di rifugiata.

Detto ciò, l’ultimo Congresso era formato dal novantuno per cento da cristiani. Percentuali, tra l’altro, non distanti dal novantacinque per cento di deputati e senatori che si dichiaravano cristiani nell’ottantasettesimo, ovvero quanti sono restati in carica dal 1961 al 1962, anni in cui cominciarono le prime rilevazioni, e che testimoniano la continuità storica di una preponderanza cristiana di questo genere. Ma che, tuttavia, suonano poco in linea con i reiterati campanelli d’allarme suonati a proposito di un presunto indebolimento drastico del cristianesimo a livello istituzionale, genericamente inteso, che si leggono con frequenza nei maggiori giornali americani, o in testi molto dibattuti nel Paese come può essere ad esempio ad esempio “L’Opzione Benedetto” di Rod Dreher. Dove la tematica della secolarizzazione è vissuta con forte preoccupazione e in cui si invita i cristiani a ritirarsi in qualche modo dal confronto pubblico, per dare vita a un’educazione che proponga una scala di valori totalmente dissonante da quanto accade, sotto certi aspetti, nella scuola pubblica, nelle maggiori corporation, oppure nel mondo della cultura e dello spettacolo.

In ogni caso tra i cristiani presenti al Congresso americano si rileva l’aumento progressivo del numero dei cattolici, con centosessantatré rappresentanti, che nella popolazione statunitense corrispondono al ventuno per cento. Tra i quali, stando ai dati del 2016, vi sono i gestori di quasi seimila scuole elementari, mille e duecento scuole medie e superiori e quasi duecentocinquanta tra università e college, con circa 3,5 milioni di studenti in totale e più di duecento mila insegnanti e professori. Senza contare i dati che fanno capo al sistema sanitario, in cui si parla della presenza di oltre seicento ospedali cattolici, escluse case di cura, case di riposo e altre istituzioni di natura caritativa. E che descrivono la Chiesa cattolica come all’incirca, dopo lo Stato federale, la seconda rete di protezione sociale presente negli Stati Uniti.



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