Diceva di sé di essere nato quattro giorni prima del Partito Popolare, e così, di anno in anno, si festeggiava il compleanno di entrambi, sino a questo che è il centesimo. Giulio Andreotti è stato il più giovane sottosegretario alla presidenza del Consiglio, sette volte presidente del Consiglio, numerose altre volte ministro, sempre presente negli snodi più importanti, e anche più drammatici, della vita della Repubblica, forse il più controverso e divisivo personaggio politico del suo tempo.
Ma era anche un personaggio molto inserito nelle segrete più insospettabili della Curia vaticana: si vantava, da giovanissimo presidente della Fuci, di essere invitato spessissimo a pranzo da Pio XII, nel tinello dell’appartamento apostolico.
Era pure molto addentro agli ambienti della cosiddetta società civile, in particolare quelli dello spettacolo e dello sport romani, dal Coni all’As Roma, alle Capannelle. Si è favoleggiato molto sulle sue carte e il suo archivio, oggi consultabili nell’apposita sezione a lui dedicata all’Istituto Sturzo. Perché la poliedricità della sua figura si prestava a sospetti e a fantasticherie di ogni tipo. In effetti, “visto da vicino”, era persona molto normale, sicuramente dotata di intelligenza ed esperienza politica non consuete, ma di spessore umano notevole. Come numerosi altri leaders della sua generazione peraltro. Certo era “freddo”, cioè distaccato dal materiale che maneggiava, e “cinico” come tanti politici abituati a dominare i loro sentimenti ritenendo la politica una scienza con regole che pretendevano di essere applicate anche nei momenti e nelle situazioni più delicate. In un certo senso era poco democristiano, cioè apparentemente poco incline alle emozioni, weberianamente professionista della politica.
Dopo la fine della stagione della Dc e la ridenominazione di ciò che restava in Ppi, non si iscrisse più al partito, ma ne riconosceva la legittima eredità politica al punto che, pur essendo senatore a vita, si iscrisse – assieme a Colombo, Fanfani e Taviani – al suo gruppo parlamentare. E posso testimoniare, come segretario dell’ultimo periodo del Ppi, che partecipava attivamente alla vita del gruppo parlamentare.
L’ultima parte della sua vita politica, com’è noto, fu segnata da una vicenda giudiziaria gravissima che lo voleva coinvolto in episodi di collusione politica con la mafia, a causa della vicinanza di uomini della sua corrente politica all’organizzazione criminale. Visse tale dramma con la dignità umanamente possibile, intervenendo per respingere ogni addebito sia in sede parlamentare che in sede giudiziaria, non mancando la presenza a nessuna seduta del processo. Non volle rinunciare nemmeno a una goccia del fiele dell’umiliazione a lui riservato da questa vicenda. Alla fine del calvario processuale venne assolto, ma evidentemente non liberato definitivamente dalle pene vissute nel silenzio e nella profondità della sua coscienza.
Ricordo ancora, eravamo nella sala della Protomoteca in Campidoglio nel marzo del 1997 dove avevo organizzato – per conto del Ppe – la celebrazione del quarantesimo anniversario dei Trattati costitutivi della Comunità europea, e lo invitai a partecipare. Era da poco esplosa la vicenda giudiziaria che tanto scalpore aveva determinato in tutta Europa e, per questa ragione, lui esitò un po’, ma alla fine accettò: quando incontrò il presidente del Ppe Martens, anticipò ogni domanda con un sommesso “Il faut survivre”. Ecco, in “quell’il faut” mi parve di cogliere la sua filosofia di vita di quegli anni, “era necessario”: era necessario per gli affetti familiari, per dimostrare la propria innocenza, per osservare il comandamento della vita dettato dalla fede.
Di Andreotti si potrebbero raccontare tanti aneddoti e tante vicende politiche di cui fu protagonista, essendo stato capo dei due governi della stagione della solidarietà nazionale, compreso quello della tragedia della prigionia e dell’assassinio di Aldo Moro su cui la ricerca storica continua, e capo del governo che nel 1991 partecipò da protagonista (assieme a De Michelis e Guido Carli) alla Cig di Maastricht in cui venne decisa la costituzione dell’Unione Monetaria Europea, da cui scaturì poi la moneta unica. Ma in questa sede non c’è evidentemente spazio.
Mi soffermerò invece su un altro episodio, minore se vogliamo, ma ugualmente rilevante e per molti aspetti sorprendente. Il 13 settembre 1984, alla Festa dell’Unità a Roma, in un dibattito con il senatore Paolo Bufalini, Giulio Andreotti, allora ministro degli Esteri, espresse l’avviso – a specifica domanda – che fosse opportuno che le Germanie restassero due. L’affermazione provocò non poche reazioni oltre che la richiesta di immediate spiegazioni da parte del cancelliere Kohl e del suo ministro degli esteri Genscher, a cui dovette rispondere il presidente del Consiglio Craxi. I rumors però non raggiunsero con pari intensità né la Francia né la Gran Bretagna. A Parigi era rimasta viva la memoria dell’affermazione (poi erroneamente attribuita ad Andreotti) di Francois Mauriac: “nous aimons tellement l’Allemagne que nous préfèrons qu’il y en ait deux”, mentre a Londra forse ci si ricordava dell’affermazione del segretario generale della Nato: “Keep the Americans it, the Russian out and the Germans down”.
In effetti nel 1984 non si poteva prevedere ancora il crollo del Muro di Berlino che avvenne infatti cinque anni dopo e, dunque, il tema della riunificazione tedesca era discusso solo in Germania come ipotesi non certo prossima, mentre negli altri paesi, soprattutto dopo i Trattati di Helsinki del 1975, si pensava a garantire lo status quo europeo.
Ma anche in Germania la polemica venne poi ridimensionata. Lo stesso Kohl, in una conversazione con Martinazzoli e il sottoscritto a Bonn nel 1993 disse che la ragione che lo indusse ad accelerare l’adozione della moneta unica europea non era quella di “germanizzare l’Europa”, semmai era quella di “europeizzare la Germania”, altrimenti avrebbe avuto ragione “otto anni fa il mio amico Giulio Andreotti”.
E aggiunse: “Anche a me fa paura una Germania troppo forte e non associata ai partners democratici europei”.