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Giulio racconta Andreotti. Conversazione di Formiche col senatore a vita

Pubblichiamo l’intervista apparsa sulla rivista Formiche n. 46, marzo 2010

Non sorprenderà che, per un senatore a vita come lui, il 1992 risulti un periodo ancora troppo recente per essere analizzato con obiettività. Certamente non fu per lui un anno qualsiasi. Ricorda con amarezza i momenti contraddittori in cui prevalsero l’incomunicabilità e la mancanza di fiducia tra i protagonisti di quel tempo. Intervennero fenomeni occulti che secondo Andreotti è probabile che tali resteranno. In ogni caso, sarebbe un errore attribuire alla mafia tutto ciò che non si sa a chi attribuire. In effetti, conclude sarcastico, da parte di Cosa Nostra c’è anche un po’ di millantato credito.

Incontriamo il presidente Andreotti nel suo studio di Palazzo Giustiniani. I novantuno anni da poco compiuti quasi non si scorgono in questo straordinario interlocutore che rappresenta un pezzo non piccolo della storia repubblicana del nostro Paese. Gli chiediamo di provare a ricordare con noi quell’anno, il 1992.

È passato un tempo relativamente breve ma da allora sono cambiate molte cose e quindi è un po’ complicato fissare con esattezza l’attenzione su un singolo aspetto. Però mi pare che la caratteristica principale di quel periodo fosse che ognuno credeva di avere la ricetta per risolvere tutti i problemi e guardava gli altri dall’alto in basso. Se invece ci si fosse dedicati a mettere insieme ognuno quella piccola parte di verità o di conoscenze che potevamo avere, forse le cose sarebbero evolute in maniera migliore. Certo, e questo è ciò che conta, pur essendo cronologicamente un momento non lontano, dal ’92 ad oggi numerose sono state le innovazioni: basti pensare anche al modo di valutare ciò che è pubblico e ciò che è privato, all’importanza dei fatti economici, al rilievo degli influssi internazionali. Visto con gli occhi della cronaca di oggi, quello di allora sembra un mondo quasi preistorico.

Quell’anno cambiò tutto. Il senatore a vita volgendo lo sguardo a questo passato, per lui ancora molto recente, mostra un quasi impercettibile rimpianto: quello di una classe dirigente che, accecata dai propri individualismi, non riuscì a vedere quello che muoveva. Il muro di Berlino cadde nell’89 ma le macerie iniziarono a cadere in Italia proprio nel ’92.

È vero, senza dubbio c’era stato un periodo nel quale lo spartiacque europeo era Berlino e il bene e il male – a seconda di come uno lo prospettava – era proprio lì circoscritto e collocato. Però a mio avviso il problema da un lato è più complesso, dall’altro un po’ meno. Tutto sommato mi sembra il modo con cui ne siamo usciti sia un modo, beh non voglio dire perfetto – la perfezione non è di questo mondo – ma insomma un modo in un certo senso indolore.

La serenità di Giulio Andreotti è persino disarmante. La fine della cosiddetta Prima Repubblica non è stata la fine del mondo e i cambiamenti hanno portato certamente effetti positivi ma sentire dall’ex presidente del Consiglio la parola “indolore” fa impressione. E i nostri occhi tradiscono un sentimento di sbigottimento e l’allievo prediletto di De Gasperi se ne accorge.

Allora la difficoltà era portare a conoscenza di un pubblico generico dei problemi che in sé sono complessi, e quindi si valutano male se si vedono solo in superficie. Però, tutto sommato, mi pare che si possa dire che il bilancio globale non sia stato un bilancio negativo.

Il 1992 fu comunque un anno segnato da due tragedie più grandi delle altre: le stragi in cui morirono i giudici Borsellino e Falcone. La morte di quest’ultimo poi segnò in modo determinante l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro a presidente della Repubblica.

È un momento ancora troppo vicino per poterlo guardare obiettivamente. Certamente quello fu un momento pieno di contraddizioni, nel quale quello che era a mio avviso il dato più negativo era la mancanza di colloquio, la mancanza di fiducia. Quando io parlavo con un altro dovevo partire dall’idea che fosse sbagliato quello che mi diceva, oppure che non fosse nemmeno vero e che lui stesso non lo credesse. Era un momento di grande incomunicabilità, mentre poi, per altri versi, ci si muoveva in spazi addirittura oceanici. Le cose viste dopo hanno un coefficiente di semplicità che sul momento non si è mai in grado di apprezzare. Però io credo che in quel frangente ci fosse sullo sfondo un desiderio comune di uscirne bene.

Subito dopo, Scalfaro dette l’incarico a Giuliano Amato il quale avviò il processo delle privatizzazioni. Un altro argomento sul quale Andreotti non manca di essere prudente.

È troppo presto per dare un giudizio obiettivo. Ma, insisto, conta il fatto che quello era un momento nel quale mancava la comunicazione. Io dovevo partire dall’idea che quello che mi diceva l’interlocutore non fosse il suo pensiero vero. Questo rende quasi impossibile l’essere una comunità in un periodo storico. E non dimentichiamo anche che c’era l’influsso oltre confine, che era tutt’altro che irrilevante.

Il senatore a vita coglie un nostra attimo di incertezza: l’influenza internazionale proveniva dal lato occidentale o da quello orientale?

Beh, semplice: da tutti e due. Se uno guarda alla realtà solo da un punto di vista, rischia di non riuscire a inquadrare tutto. O addirittura rischia lo strabismo.

A questo proposito, viene in mente il caso – diventato per tanti una leggenda – dell’approdo sulle coste italiane della nave inglese Britannia. Molti, anche a distanza di anni, videro in quell’episodio l’attenzione della finanza internazionale alle vicende interne del Paese.

Probabilmente vi erano degli influssi esagerati, sia di diffidenza sia di confidenza. Ognuno riteneva di essere in possesso della ricetta giusta e c’era un fideismo che non si basava poi su dati obiettivi.

Dall’alto della sua esperienza, e della sua fede, il distacco con cui Andreotti rilegge i fatti di diciotto anni fa è semplicemente impressionante. Pensare che si tratti di cinismo sarebbe offensivo per un uomo della sua sensibilità. Non possiamo non ricordare che nel ’92 ci furono le stragi di mafia e l’inchiesta di Mani pulite. Entrambe premessa dell’accusa di mafia che poi nel ’93 gli fu rivolta dalla procura di Palermo guidata allora da Gian Carlo Caselli. Il Divo Giulio intervenne in Aula il 13 maggio ’93 e lo fece per chiedere al Parlamento di consentire lo svolgimento del processo, in modo da dimostrare anche in Tribunale la propria estraneità ai fatti contestati. Fu un intervento memorabile. Nel quale non mancò un riferimento esplicito alla “persecuzione” che si stava compiendo contro di lui e quello che lui rappresentava. A noi stessi e al senatore a vita ricordiamo le parole di allora: “Chi sia o chi siano i persecutores non è al momento individuabile, ma non dovrà restare occulto”.

Può darsi che del tutto chiaro non riusciremo mai a vedere. È stato un momento nel quale si sono concentrati impulsi contradditori, desideri anche scomposti. È stato sicuramente uno dei momenti più difficili che io ricordi dalla mia esperienza.

La sua biografia è quella di un uomo che come pochi ha combattuto la mafia. A volte viene quasi da sospettare che questa organizzazione criminale per uccidere i propri avversari non abbia usato solo il tritolo ma anche accuse false.

Probabilmente, in termini così assoluti, non è possibile affermarlo. Un fenomeno occulto è sempre difficile da analizzare. Però sono convinto che sia troppo semplice dire “è la mafia” quando alcune cose non si sa bene a chi attribuirle. Probabilmente, da parte della mafia c’è anche un po’ di millantato credito.


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