C’è una quantità di cose della politica che fu non replicabile nell’odierno. I partiti, per esempio, sopravvissuti nell’espressione semantica ma morti dentro, forse per sempre. La cultura dei protagonisti: se si pensa che l’Italia della prima legislatura registrava un 90% di popolo illetterato, cioè privo persino della licenza elementare mentre il 91% dei parlamentari era laureato (oggi il 68%), si capisce che qualche differenza con quel che passa il governo nel tempo nostro c’è.
L’uso dell’italiano corretto e addirittura forbito nella dialettica tra maggioranza e opposizione, l’assenza dell’offesa personale, piuttosto che i borborigmi, le invettive e le urla dei protagonisti di oggi. I cicli di vita politica lunghissimi, allora, a fronte della veloce consunzione di uomini e governi, dei protagonisti di oggi. Pensare ad Andreotti a cent’anni dalla sua nascita, a tutta prima, fa correre la mente ad un’idea di inattualità della sua storia, ormai diventata un tutt’uno con il mitologema della politica democristiana, scavata nell’immaginario collettivo anche dalla filmografia di Sorrentino.
Perché Andreotti raccoglie tutte le inattualità che abbiamo messo in rassegna: uomo di partito, addirittura capocorrente di un gruppo che faceva del suo leader la sua ideologia, a differenza delle altre correnti che cercavano di ornarsi con un velo ideologico; uomo colto, che ebbe nella scrittura e nella pratica di governo – per sette volte presidente del consiglio, per 26 volte ministro- l’espressione più compiuta della sua cultura; monumento dei cicli politici lunghi: entrò nelle assemblee legislative ai tempi della Consulta, nel 1945 a 26 anni, e ne è rimasto fino alla morte, a 94 anni, per 68 anni ininterrotti; maestro dell’oratoria sfumata, quasi sussurrata, da mandarino dell’epoca imperiale, capace nell’involucro della cortesia più squisita di abbattere un lottatore di sumo.
E poi l’ironia, la sublime ironia di Andreotti, prodotto di combinazioni chimiche nobili, in cui romanità, intesa come antica abitudine a vederle tutte e a lasciarsi attraversare da tutte senza eccessivi turbamenti, buone letture, frequentazioni con l’eternità perfetta dell’oltretevere, curiosità intellettuale e gusto per la battuta intinta nel fiele (ma solo come retrogusto finale), facevano di lui un Karl Kraus nato per caso dalle parti del cupolone. Ma l’ironia è cosa intelligente e colta e suppone la collaborazione di due menti allo stesso livello: all’epoca Andreotti poteva trovare più di un destinatario cui indirizzare i suoi aforismi..
Eppure quella inattualità del leader democristiano, che non riuscì mai ad infilare nel suo rosario infinito di incarichi quella di segretario del partito, lascia certi varchi di modernità molto importanti. Andreotti, prima ancora che uno scrittore, è stato un giornalista, un ottimo giornalista peraltro. Ed ha compreso prima di ogni altro democristiano l’importanza fondamentale della comunicazione in politica.
Attenzione: non della propaganda, che vedeva nei partiti addirittura impegnati interi dipartimenti e uffici dedicati, ma della comunicazione che alimenta la reputazione dei protagonisti. Anche attraverso l’uso di strumenti decontestualizzanti : il suo cammeo nel film di Alberto Sordi, “Il tassinaro” è del 1983, stagione in cui vigeva nella politica il dovere del grigio grisaglia e in tv si andava solo per le tribune politiche. A ben vedere il suo personaggio pubblico sembrava concedere alla curiosità molto più di quello che il comune sentimento politico potesse accettare. In un tempo in cui il “corpo” del politico era sublimato e reso etereo e si faceva obbligo di tacere sulla salute, lui parlava nelle interviste delle proverbiali emicranie e delle sue insonnie, che peraltro gli allungavano le ore di lavoro ma lo portavano a sconvolgere la vita di chi gli chiedeva appuntamenti e che era costretto ad incontrarlo alle cinque del mattino.
Certo sarebbe difficile immaginare Andreotti che fa il selfie con la moglie su un letto sfatto con pochi brandelli di pigiama addosso, ma non giurerei sul fatto che, avendo a disposizione uno strumento come la rete, non l’avrebbe utilizzato per una somministrazione quotidiana di aforismi. I cent’anni dalla sua nascita potrebbero essere forse un’occasione per la politica contemporanea di recuperare un debito di memoria nei confronti della personalità della Repubblica italiana, visto che nel 2013, anno della sua scomparsa, non sembra che ci si sia sbracciati più di tanto per ricordarlo. C’è chi l’ha disegnato come belzebù.
Ora, a parte il fatto che non ci pare di aver avuto mai traccia di ricchezze o maneggi che abbiano toccato il de cuius, potrebbe essere sufficiente per capirlo dare un’occhiata alla dignitosa normalità della sua famiglia. Ma, se proprio vogliamo parlare di Belzebù e la politica, da quella passata a quella attuale, vediamo di tenerci vicino un esorcista laureato. Mi sa che di invasati ne troverebbe assai.