“Desidero dichiarare dinnanzi a Dio che nulla ho mai avuto a che fare con la mafia e con l’omicidio Pecorelli. Ora che sto per partire per Palermo desidero ripetere con la serietà di un giuramento dinnanzi a Dio, cui nulla può essere nascosto. E io nulla ho avuto mai a che fare con la mafia, se non per combatterla con leggi o atti pubblici, dopo la morte di Pecorelli, del generale Dalla Chiesa e di tutte altre le persone assassinate”. Lo scriveva Giulio Andreotti, in alcune lettere private che voleva fossero aperte dai suoi familiari solamente post-mortem, lette da monsignor Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura di Casa Pontificia, durante la presentazione del suo libro “I miei santi in paradiso”, scritto insieme al giornalista Roberto Rotondo ed edito dalla Libreria editrice vaticana. Un’inedita raccolta dei dialoghi e delle lettere private del più longevo politico della storia della Repubblica italiana con alcune delle figure in assoluto più eminenti del cattolicesimo italiano, tutte innalzate agli onori degli altari: da Giorgio La Pira a don Primo Mazzolari, da don Carlo Gnocchi a don Zeno Santini, ma anche San Paolo VI, san Giovanni XXIII, san Giovanni Paolo II, e nientemeno che san Pio da Pietralcina, santa Madre Teresa di Calcutta o i beati Josemaría Escrivá de Balaguer e Álvaro del Portillo, il fondatore dell’Opus Dei e il suo più stretto collaboratore.
“Prima della fine non chiamate nessuno beato, un uomo si riconosce pienamente alla fine, dice il Siracide. Io ho conosciuto Andreotti con la lettura di alcune lettere per le quali sfido ancora i familiari a renderle pubbliche”, ha affermato Sapienza. In queste, il leader democristiano diceva che “è l’eternità che conta, raggiunta al momento giusto con grande aiuto di Dio”. “Nell’azione politica qualche sgambetto l’ho fatto, e non ho frenato la mia ambizione, se a qualcuno ho arrecato ingiuste amarezze chiedo indulgenza, spero di non portare dietro di me rancori o equivoci. Se a me succedesse qualcosa di grave, i miei non nutrano sentimenti di odio o di vendetta”, sono le parole di Andreotti lette e commentate monsignor Sapienza, dopo la sottolineatura delle dichiarazioni, tutte riportate nel libro, che a sua difesa spesero tanto Giovanni Paolo II quanto Benedetto XVI. Quest’ultimo che scriveva, come riportato nell’introduzione del volume scritta da Gianni Letta, in cui ci si rifà a quanto riportato dal libro di Alessandro Acciavatti Oltretevere: “Solo un uomo di grande forza interiore poteva superare quegli anni senza cadere nell’amarezza ed essere distrutto dentro”.
“Ignoro chi ci sia dietro queste accuse e in un certo senso dovrei anche ringraziarli, perché mi hanno creato un periodo di sofferenze e di umiliazioni che era necessario per la mia anima”, scriveva Andreotti. “Forse questi anni di sofferenza e di calunnie servono a bilanciare un corso di vita tutto favorevole. Sarebbe ingiusto avere lo stesso premio eterno dei poveri che senza una casa e un lavoro affollano le chiese e chiedono aiuto che non sempre possiamo dare loro. Sono sereno, non porto rancore a chi ha montato questa macchina calunniosa. Se era la sola strada per farmi fare un periodo di penitenza, non posso lamentarmi”. Per la vigilia della sentenza del 24 settembre ’99 segna anche l’ora, ha commentato sorridente Sapienza, che continua a proclamare le parole dello statista democristiano: “Per me in fondo vale il tribunale di Dio, a cui dovrò rispondere di tante cose ma non di questi due carichi penali. Non arrivo a ringraziare chi mi ha teso la trappola ma non porto rancori. Con un post scriptum che a me dice tanto, e su cui faccio tante meditazioni”, confessa Sapienza. Quello cioè in cui Andreotti scrive: “viene spesso davanti al portone un poverino, spesso ricoverato per cure, e con i miei lo chiamiamo il vecchietto. Aiutatelo”.
Alla presentazione del libro, presso la sala Zuccari del Senato, di fronte a una nutrita schiera di cardinali e uomini politici di spicco, tra cui i cardinali Angelo Becciu, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, monsignor Nunzio Galantino, presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani o il capogruppo dei socialisti e democratici europei Gianni Pittella, è intervenuto il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana. Che ha subito commentato dando la sua chiave di lettura del volume, ovvero che “non si tratta di un volume in cui sono stati raccolti gli appunti personali di un importante uomo politico. Definirei questo volume un libro generazionale, scritto da un autorevole rappresentante di una generazione di cattolici”.
“Leggendolo, sembra che tutto il ventesimo secolo sia tenuto insieme. Ciò che lo tiene insieme non è infatti ideologia o rappresentanza di interessi, ma una corrente di pensiero che si fa prassi politica. Senza pensiero è impossibile fare politica, vale nel passato, nel presente e anche per futuro”, ha continuato Bassetti, riferendosi cioè a quel “cattolicesimo democratico” che prende vita “dalla fede che alcuni uomini e donne hanno avuto col cristianesimo. Uomini diversi, con inclinazioni e attitudini differenti, ma che avevano una storia politica in comune la cui paternità risaliva anche all’appello di don Luigi Sturzo di cui celebriamo il centenario”. Nel libro infatti c’è “una complessa ragnatela di esperienze, storie e rapporti umani che Andreotti ha intessuto già dalla fine degli anni ’30, in un periodo caratterizzato da una grave crisi economica e da regimi dittatoriali garantiti anche dagli applausi delle folle: attenti agli applausi delle folle. In quell’epoca di falsi profeti crescevano grandi personalità, uomini di Dio tenaci nel servizio e ardenti nella visione, che avrebbero dato vita a una stagione alta e nobile, contribuendo a formare una civiltà basata su un umanesimo cristiano, che La Pira riassumeva con il pane e la grazia. E dove ci era il rifiuto di ogni rigurgito razzista”, spiega Bassetti.
La Pira e Andreotti, ad esempio, “comunicavano a un livello altissimo e mistico, erano molto diversi eppure si comprendevano perfettamente”, commenta il presidente della Cei. Nell’anno in cui risale la lettera, il ’65, Andreotti era ministro della Difesa. Dallo scambio con l’allora sindaco di Firenze emerge la proposta di “dedicare un capitolo del bilancio del suo ministero per delle armi efficacissime: l’orazione nei monasteri di clausura. Perché la preghiera nei monasteri di clausura è l’arma più potente per la difesa della pace dell’umanità. C’erano i missili russi che volavano verso Cuba, e lui diceva: se avete paura dell’atomica, la preghiera è l’arma più potente”. Finanziare cioè, legge Bassetti, quelle che La Pira chiamava “cittadelle dell’adorazione”. Il porporato ha poi riservato una speciale menzione alle parole di Andreotti su Wojtyła: “appartengo a una grande scuola di cattolici che dice che si deve volere bene al Papa, e non a un Papa, diceva Andreotti. Come quando san Giovanni Bosco diceva non gridate viva Pio IX, ma gridate viva il Papa. Se queste parole erano vere ieri ma sono ancora oggi più valide quando la babele delle lingue sul web assume i trattati della mistificazione nei confronti del pontefice”.
“Tra tutte le frequentazioni note di Andreotti, mancavano i santi”, commenta infine Gianni Letta. “Questo aspetto completa e illumina il suo percorso, e la ricostruzione, perché possiamo vedere immagini, foto, successione di sue foto o della famiglia, tutte illuminate in questo libro dal suo rapporto con i santi. Esce cioè la figura autentica di Andreotti, restituendo una verità”. “A tutti, anche ai santi, lui ha donato non solo la sua saggezza e il suo consiglio, ma anche l’aiuto”, spiega Letta. “Di quanti di questi si è interessato per risolvere alcuni dei loro problemi? La Pira aveva chiesto ad Andreotti di istituire una voce di bilancio per i monasteri, e lui certamente non ci riuscii. Ma quanti ne ha aiutati, quanti parroci e suore hanno risolto problemi edilizi o di vario tipo grazie ad Andreotti? A Torino, ha realizzato l’arsenale della pace, ex arsenale di guerra riconvertito a luogo di pace”. Per Letta Andreotti “ha ispirato ogni scelta agli ideali del cattolicesimo, come fede ideale e come universalismo”, e il libro “ha colto l’essenza di questo statista cristiano che ha illuminato la sua attività laica per lo Stato con la sua fede e il suo credo. E non è un caso che la didascalia che introduce la sezione di immagini reca il pensiero: è un atto di presunzione affermare la validità della presenza cristiana su tutti i problemi fondamentali dello Stato. Questo pensiero ha illuminato tutta la sua attività politica e caritatevole, quella continua di attivismo sociale”.
Un altro aspetto sottolineato nel libro, tanto da Bassetti quanto da Letta, è quello del Mediterraneo. “Lasciatemi dire grazie a quella generazione di cattolici che si sono battuti per collocare la società nella parte giusta, in una Europa libera democratica e di pace, con quei valori di libertà e solidarietà che provengono dalle radici cristiane del continente europeo”, ha affermato il cardinale Bassetti. “Auspicando che questa missione di pace e solidarietà sia ancora il cammino del futuro voglio concludere con le lettere tra Andreotti e La Pira in cui si evocava la Madonna come guaritrice delle nazioni e si invocava il problema del Mediterraneo, e io voglio giocare lì la mia presidenza della Cei. Lì ci sono le nostre radici profonde, senza Mediterraneo è difficile parlare di pace. La Pira scrive che bisogna guarire l’Italia e cooperare in modo essenziale alla guarigione dell’Europa”. Sul Mediterraneo è arrivata poi, in conclusione, la chiosa di Gianni Letta. “Il dialogo nel Mediterraneo, che lui chiamava trialogo, sostenendo che non si poteva prescindere dal dialogare a tre, cristiani, musulmani ed ebrei, area difficile che chiamava equivicinanza”. Insomma, ricorda con emozione Letta, “lo studio di Andreotti era un porto sicuro, un riferimento, dove si poteva sempre trovare ascolto, consiglio, supporto, conforto, perché questo ha fatto tutta la vita, nello svolgimento del suo lavoro”.