Sono iniziati i trasferimenti dei richiedenti asilo ospitati al Cara di Castelnuovo di Porto, verso Campania e Basilicata. Alla fine del mese dovranno essere tutti fuori, visto che il Viminale non ha rinnovato le convenzioni stabilite in precedenza. In questo passaggio si perderanno anche più di cento posti di lavoro messi a disposizione dalla cooperativa Auxilium, per un centro così noto per la sua qualità dell’accoglienza che persino Papa Francesco vi ha fatto visita. Formiche.net ne ha parlato con monsignor Pierpaolo Felicolo, direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale delle migrazioni (Migrantes) e incaricato della Commissione per le migrazioni della Conferenza episcopale del Lazio.
Don Paolo, qual è la sua reazione emotiva?
La mia reazione emotiva è stata ed è ancora di grande preoccupazione. Sono stato alcune volte a Castelnuovo di Porto e ho avuto modo di vedere che c’era un servizio di accoglienza e di integrazione ben avviato. Da un giorno all’altro tutto questo viene meno. Questo crea un senso di vuoto e di impotenza.
Molti hanno parlato di un metodo di trasferimento non dignitoso. Lei conosce la situazione? Può spiegare meglio che sta succedendo?
Un trasferimento fatto così all’improvviso manda per aria un paziente cammino di integrazione che stava avvenendo per tante persone da diverso tempo. Bambini che andavano a scuola, persone che si erano integrate nel luogo dove vivevano, percorsi di inserimento al lavoro, tutto all’improvviso viene a cadere. A mio avviso questo crea un grosso disagio umano che non riguarda numeri, ma persone. Desidero sottolineare questo: dietro i numeri ci sono storie di vite precise che cercano nel nostro Paese di ricostruirsi un percorso di dignità. In questa maniera tutto all’improvviso si interrompe.
Il quotidiano Avvenire si è chiesto quale futuro viene offerto a queste persone, e quale immagine di civiltà stiamo dando. Lei come risponderebbe?
La domanda del quotidiano Avvenire è anche la mia: quale futuro per queste persone? Io credo che si debba continuare a vivere uno spirito di umanità e di solidarietà nei confronti dei migranti. A mio avviso non stiamo dando una buona immagine, ma in situazioni come queste, come è stato già detto, abbiamo il dovere di “restare umani”.
Lei conosce in prima persona la situazione dell’immigrazione nel territorio romano, come si potrebbe affrontare realisticamente il problema immigrazione?
Il fenomeno migratorio è articolato e complesso e come tale presenta dei nodi da risolvere, ma credo davvero che tanto lavoro si è fatto in questi anni e questo lavoro non deve essere perso.
Nelle nostre comunità etniche di varie nazionalità di tutti i continenti, da anni stiamo lavorando per percorsi di inclusione che comprendono per esempio l’insegnamento della lingua italiana, la cui conoscenza è il primo elemento per potersi integrare, l’orientamento attraverso i patronati o strutture adeguate nell’inserimento nel mondo del lavoro, l’accompagnamento e il sostegno nell’educazione dei figli che porti già ad una serena convivenza per la seconda generazione, il sostegno nelle situazioni di criticità come la ricerca di un alloggio… Quello che voglio dire è che l’accompagnamento concreto di persone con le loro storie specifiche porta a superare problemi che si possono creare ed arrivare ad un sereno inserimento nel tessuto della nostra città.
Negli ultimi cinque anni sono passate in quel centro ottomila persone, un migliaio delle quali da zero a sedici anni. E sono pochissime quelle rimaste nel nostro Paese. Quanti sono in media, secondo le sue conoscenze, quelli che vogliono lasciare l’Italia e quelli che al contrario intendono stabilirsi qui? Molti di loro che obiettivi hanno per il futuro?
Dalla mia esperienza posso dire che tanti vogliono arrivare in Italia per poi potersi trasferire in altri Paesi dell’Ue e questo credo che sia una situazione ormai nota. Direi che quelli che desiderano rimanere, e la mia risposta potrebbe sembrare scontata ma non lo è, hanno come obiettivo poter vivere e lavorare serenamente e poter finalmente permettere a loro stessi e ai loro figli di vivere un futuro migliore di quello che hanno lasciato e poter aiutare, nei limiti del possibile, i loro familiari che restano nei Paesi di origine. Non dimentichiamoci che la gente non emigra perché è bello emigrare, ma si fugge da guerre, violenze, fame, disastri ambientali…
Pensa ci sia bisogno di fare un discorso più complessivo e incisivo anche nell’affrontare il tema delle migrazioni nei Paesi di partenza?
Penso all’operato di tanti missionari che potrebbero svolgere un lavoro importante di collegamento con il governo italiano, cioè di “aiuto a casa loro”, come si dice spesso ultimamente e più in maniera sprezzante che caritatevole. Io credo innanzitutto che bisogna affrontare il tema delle emigrazioni nel nostro Paese e in altri Paesi occidentali con toni più sereni, avendo chiaro che ci sono problemi da risolvere, ma non mettendo al primo posto il sentimento della paura che serve soltanto ad allontanare e non ad aiutare processi di integrazione. Ovviamente a mio avviso è importante cambiare le situazioni che sono all’origine delle migrazioni attuando intelligenti ed attente attività di cooperazione allo sviluppo per migliorare le condizioni di vita nei Paesi di provenienza. Questo potrebbe davvero disincentivare la migrazione.