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Dove e perché la politica ha fallito sulle disuguaglianze

Di Alfredo Macchiati

La crescita delle disuguaglianze è diventata uno dei problemi più discussi nel dibattito economico e politico. Gli economisti, non tutti, fortunatamente, sono arrivati tardi a comprendere le dimensioni e a interrogarsi sulle cause del problema (ancora una volta! si potrebbe dire) e sono ben lontani dal trovare soluzioni condivise, adottabili dai governi con ragionevole tranquillità. L’agile saggio pubblicato da Laterza, Agire contro la disuguaglianzaun Manifesto, promosso da Ag.i.r.e (Against Inequiality Rebuild Equity) e redatto da Maurizio Franzini, Elena Granaglia, Ruggero Paladini, Andrea Pezzoli, Michele Raitano, Vincenzo Visco, giunge dunque nel pieno della discussione, sia accademica che politica, e rappresenta uno strumento utile per aggiornarsi e riflettere sul tema.

Gli estensori ricordano come un manifesto sia di per sé uno strumento assertivo e in qualche modo di parte e non fanno mistero della loro premessa di valore: l’aumento della disuguaglianza sarebbe prova che il mercato funziona male, questo il loro assunto di base. Sarebbe stata la “controrivoluzione” di Ronald Reagan e Margareth Thatcher, con il riaffermarsi della convinzione liberista che il mercato lasciato a se stesso sia la soluzione di ogni problema, a portare la disuguaglianza a livelli più elevati.
Certamente si registra nelle ultime decadi una massiccia redistribuzione del reddito – dai salari ai profitti – e un arresto del cosiddetto ascensore sociale: per stare in Italia, siamo uno dei paesi con la più alta persistenza intergenerazionale delle condizioni economiche, anche con una tendenza all’aumento negli anni più recenti.

D’altra parte all’aumento della sensibilità sul tema potrebbe non essere estraneo un mutamento nella percezione del fenomeno e di modifica degli stile di vita (colpisce di più l’accresciuto numero di Suv in circolazione che l’aumento della ricchezza dell’1% di Warren Buffet il cui effetto sull’indice della disuguaglianza è però certamente maggiore). Infine, non dovrebbe essere dimenticato che la disuguaglianza tra Paesi, come pure il Manifesto ricorda, è diminuita; e anche se si basa su confronti tra redditi medi e quindi è priva di una vera dimensione distributiva, il fatto che negli ultimi trent’anni un miliardo di persone sia uscita dalle condizione di povertà estrema (1,90$ al giorno) dovrebbe essere ascritto almeno in parte, a merito di quella “controrivoluzione” liberista.

Tornando alle cause del fenomeno, si potrebbe sostenere anche una visione diversa su dove vada ricercato il baco che ha portato all’aumento della disuguaglianza all’interno dei Paesi. Oltreché alle idee di qualche economista defunto (o quasi) si potrebbe anche indagare il funzionamento delle istituzioni politiche. Queste si sono rilevate incapaci di tradurre le opinioni degli elettori “discriminati”, e non da oggi, in politiche pubbliche adeguate. In altri termini, si potrebbe osservare che l’aumento della disuguaglianza prova che i governi, la politica – non solo il mercato – hanno funzionato male. A conferma del fatto che la disuguaglianza non sia un principio congenito dei sistemi liberaldemocratici sta l’evidenza contraria che nelle loro carte fondative la promozione dell’uguaglianza – pur
nella difficoltà di tradurne il significato in politiche concrete – è affermata con chiarezza.

È così se guardiamo alla Costituzione degli Stati Uniti d’America, il paese per eccellenza dell’economia di mercato: il14esimo emendamento, introdotto dopo la guerra civile, allude ad una sorta di uguaglianza sostanziale tra cittadini. Ancora più esplicito l’articolo 3 della nostra Costituzione che prevede di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. E la stessa Corte ebbe ad affermare, in una delle sue prime sentenze (la 3/1957), che l’uguaglianza deve essere intesa come “trattamento eguale in condizioni eguali e trattamento diseguale in condizioni diseguali”. È stata la difficoltà/incapacità di declinare questi principi in coerenti politiche pubbliche nonché la mancanza di un adeguato enforcement dei diritti costituzionali a consentire la crescita delle disuguaglianze.

A tali difficoltà/incapacità ha certamente contribuito la tendenziale riduzione della crescita nelle economie avanzate negli ultimi decenni – e quindi delle risorse da distribuire. Si è trattata di una prova di forza per il welfare dei sistemi occidentali che non è stata superata; un fallimento che spiega, pur se in misura non poco controversa, anche l’affermarsi dei partiti populisti. Ma quale potrebbe essere un efficace risposta ai problemi che la crisi ha posto con lacerante evidenza all’attenzione dei governi? Il Manifesto non si sottrae a dare una risposta e propone un vasto programma di ben 37 interventi anche se forse qui sarebbe stata auspicabile l’indicazione di una qualche priorità.

Gli interventi spaziano in vari settori e all’interno dei settori con raggi d’azione molto ampi: nelle istituzioni (fine della banca mista); nelle politiche macroeconomiche, con una riduzione del debito pubblico grazie a non meglio precisate politiche “non dissimili da quelle adottate dopo la seconda guerra mondiale” (con una curiosa equiparazione tra la ristrutturazione del debito di un paese uscito dalla guerra, la Germania, e quella di un paese in pace e ricco, l’Italia di oggi, i cui governi hanno scelto per quarant’anni di finanziare a debito il consenso elettorale); nella concorrenza; nelle politiche retributive; nelle politiche fiscali (con la costituzione di una World Tax Authority piuttosto che nell’inasprimento dell’imposta di successione); nel welfare, dove si asserisce una superiorità degli assetti universalistici pubblici, indipendentemente dal funzionamento e dalla qualità della macchina amministrativa pubblica e dal rilievo che altri beni pubblici – forse più difficilmente perseguibili dai privati di quanto non sia il welfare- andrebbero perseguiti.

In questo elenco degli interventi possibili forse sarebbe stata utile una discussione un poco più approfondita, e quanto mai attuale, dello strumento del reddito minimo. Questo può farsi corrispondere al reddito di cittadinanza e ci sarebbe da discutere su come sciogliere i tre “corni del trilemma” che caratterizzano questo strumento: come rispondere ai bisogni, come evitare il disincentivo al lavoro, come contenere i costi. E se la verifica delle condizioni in base al quale il reddito minimo viene erogato sia la strada da percorrere o se invece non sia più semplice pensare al basic income come un’erogazione a favore di tutti i cittadini, salvo poi recuperarlo in tassazione per chi ha redditi, divenendo di fatto simile ad un’imposta negativa; possibilità trascurata nel disegno della misura oggetto del programma dell’attuale governo.

Tutto ciò detto, siamo poi così sicuri che la disuguaglianza sia più alta oggi che 100 anni fa? Walter Scheidel in un interessante libro sulla storia della disuguaglianza uscito nel 2017, The Great Leveler, sostiene il contrario (forse con l’eccezione degli Stati Uniti). Questo relativismo storico non deve indurre naturalmente all’inerzia ma sollecita una riflessione e sul fatto che le società polarizzate e globalizzate, come suggerisce Scheidel, rendono il sentiero delle politiche pubbliche particolarmente stretto.

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