A sessanta anni dalla sua introduzione, recentemente si è registrato un aumento di interesse sulla funzione dell’educazione civica nelle scuole. E c’è chi, come Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera, lo ha collegato con l’esercizio del referendum, evidenziando due temi centrali: la partecipazione democratica e il ruolo decisivo della scuola. Entrambi richiamano l’importanza fondamentale dell’educazione, che rappresenta l’autentico nodo del cambiamento.
Sull’esistenza del ministero della democrazia diretta guidato da Riccardo Fraccaro non penso che finora siano stati tanti gli italiani ad accorgersene. E piuttosto che proporre di abbassare le percentuali sulla validità dei referendum, forse andrebbe prevista la soglia del 50 per cento per rendere valide le elezioni comunali e regionali, politiche ed europee. Bisognerebbe, quindi, andare in direzione esattamente opposta, appunto per concretizzare quel principio della partecipazione diretta che dovrebbe rendere i cittadini più consapevoli e capaci di controllare il potere pubblico. E questo vale sopratutto per rendere reale la partecipazione sulla Rete, dove si manifesta quello che Zygmunt Bauman e Byug-Chul Han hanno definito “effetto sciame”, in base al quale le ondate di indignazione e di partecipazione come velocemente si innalzano così rapidamente si spengono, dimostrando sullo sfondo che l’effetto politico dei like è prossimo allo zero.
Per quanto riguarda la reintroduzione dell’educazione civica, l’Anci insieme ad altri ha raccolto 50 mila firme dando pratica attuazione al secondo comma dell’articolo 71 della Costituzione che prevede la presentazione di leggi da parte dei cittadini. In questo caso, trovo l’iniziativa – posso dirlo? – lievemente populista, poiché sarebbe bastata la proposta di uno qualsiasi dei 945 parlamentari per ottenere il medesimo risultato. Mi si potrebbe obiettare che l’autorevolezza dei deputati e senatori è piuttosto relativa poiché eletti su liste bloccate che li rendono talmente rappresentativi che sia il Presidente della Repubblica che il capo del governo – e cioè i ruoli istituzionali più rilevanti dello Stato – vengono individuati al di fuori di essi. Assegnare poi all’educazione civica, con tempi peraltro assai striminziti, una serie di compiti che riguarderebbero materie di innumerevoli corsi di laurea, non sembra il massimo dell’applicabilità.
Eppure quando nel 1958 il ministro della Pubblica Istruzione Aldo Moro propose l’istituzione di due ore mensili di educazione civica da assegnare al professore di storia, si seguiva una logica molto precisa, che richiamava un ordine del giorno approvato dalla Costituente nel dicembre del 1947: fare diventare materia di studio i valori della nostra legge istitutiva e attraverso questa attualizzare in modo trasversale tutti gli insegnamenti. Dopo sette decadi ci ritroviamo gli stessi problemi, accentuati da una crisi dell’istruzione che ha assunto proporzioni drammatiche, poiché non solo il 75 per cento dei nostri concittadini non sa interpretare una semplice frase nella nostra lingua ma il 27,9 per cento è considerato analfabeta funzionale: cioè non sa leggere, scrivere e far di conto. E sono le stesse persone che rispondono ai sondaggi, postano sui social e, sopratutto, votano.
Pertanto, seguendo l’intuizione dello statista pugliese, se vogliamo rendere l’educazione civica uno strumento che contribuisca a innovare l’istruzione scolastica, essa andrebbe orientata sullo studio della disinformazione. Solo in questo modo si può distinguere il vero dal falso, fronteggiando l’eccesso delle informazioni irrilevanti che distorcono la percezione della realtà. Appunto per questo, la disinformazione oggi probabilmente rappresenta la principale emergenza educativa e democratica di questo tempo. E quello che abbiamo sotto gli occhi ne è la logica conseguenza.