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Servono imprese competitive per un Paese che vuole crescere

Di Marcella Panucci
manifattura, industria

L’Italia è ancora oggi la seconda potenza industriale in Europa e la settima al mondo, e questo risultato non è frutto del caso ma dello sforzo costante di adattamento e rinnovamento di un sistema produttivo straordinariamente vitale, basato su un modello di imprenditorialità diffusa che ha nelle economie di specializzazione la sua principale arma competitiva e nelle aree dei distretti industriali il luogo in cui risiedono saperi taciti e capitale sociale difficilmente imitabili dalla concorrenza internazionale.

La crisi economica che ci siamo lasciati alle spalle ha intaccato pesantemente questo patrimonio del Paese, ma al tempo stesso ha accelerato un processo di evoluzione nelle logiche di produzione già in corso fin dagli inizi del nuovo millennio, che si sostanzia in uno spostamento verso prodotti di più alta qualità e in uno sguardo che travalica sempre più i confini dei territori di origine delle imprese, alla ricerca di partner strategici di sviluppo oltre che di nuovi mercati potenziali di sbocco.

Non possiamo però ignorare che alla capacità di resilienza mostrata dall’industria italiana nel suo insieme abbia purtroppo corrisposto anche una crescente e preoccupante divaricazione al suo interno tra chi è stato in grado di cavalcare il cambiamento e chi è stato costretto a subirlo. È il tema – comune a tutto il mondo occidentale – della crescente disuguaglianza di opportunità e di risultati, che si osserva tanto nella distribuzione del reddito tra i cittadini, quanto, a monte,  nella distribuzione degli utili tra le imprese.

Perché se pensiamo che all’interno di ciascuna di queste imprese lavorano, o lavoravano, imprenditori, manager, quadri, operai, impiegati, capiamo quanto il tema dell’eterogeneità nello sviluppo delle imprese sia indissolubilmente legato a quello dello sviluppo delle persone, e quindi della società nel suo complesso. E di quanto la sfida per una società inclusiva e sostenibile nel lungo periodo non possa essere vinta senza una politica che metta al centro l’attività d’impresa e quindi la sua capacità di creare lavoro diffuso, qualificato e ben retribuito.

Ciò è stato detto con chiarezza lo scorso febbraio in occasione delle Assise Generali di Confindustria tenutesi a Verona. E ciò viene ribadito da mesi anche al nuovo governo in carica che, dopo un periodo di chiusura pregiudiziale alle istanze del mondo produttivo, appare finalmente permeabile al dialogo costruttivo con le Parti Sociali. Siamo convinti che per disegnare una politica industriale che non accentui l’eterogeneità tra le imprese ma che, al contrario, le ricompatti verso percorsi virtuosi di crescita, si debba intervenire in modo coordinato su diversi piani, che corrispondono ad altrettanti vincoli strutturali.

C’è bisogno di allentare il vincolo finanziario per gli investimenti, perché per investire servono ovviamente adeguate risorse che non sempre sono nella disponibilità delle imprese, per numerose ragioni che rappresentano altrettanti ambiti di intervento della policy. C’è altrettanto bisogno di adeguate risorse umane per fare sì che l’impresa sia effettivamente in grado di trasformare la maggiore complessità richiesta dagli investimenti in opportunità di creazione di valore. La complessità è tecnica e organizzativa, e richiede un forte impegno sul tema della formazione e su quello dell’allineamento tra domanda e offerta di competenze sul mercato del lavoro, a tutti i livelli di qualifica.

Serve poi rafforzare la logica di sistema, per far si che le competenze e le risorse attualmente frammentate tra una moltitudine di imprese, in una moltitudine di territori, siano maggiormente valorizzate con politiche che, superando anche i confini tradizionali delle aree di distretto, aggreghino gli sforzi imprenditoriali intorno a progetti comuni d’investimento.

Per ultimo, è indispensabile eliminare il vincolo delle infrastrutture. Trasporto merci, logistica e banda ultra-larga sono le aree di intervento prioritarie affinché le imprese italiane rimangano connesse all’interno della rete globale degli scambi e prosperino grazie a questi scambi. Non si tratta, con tutta evidenza, di proposte volte a favorire gli interessi di una lobby. Si tratta piuttosto di costruire un ecosistema favorevole alla competitività delle imprese affinché ci sia crescita duratura, senza la quale non possiamo lottare efficacemente per mantenere unito questo Paese.

 

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