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La Francia, l’Italia e la strategia dell’auto-isolamento

Dibba

Normalmente, nelle vicende personali, aziendali, politiche e quant’altro, ci si lamenta quando ci si sente isolati. Pare, invece, che il governo gialloverde si stia auto-isolando nell’Unione europea. Forse perché si sente supportato dalla Washington di “The Donald” Trump o perché si considera partner privilegiato della Russia di Putin oppure perché ancora ritiene che, privo di legami, da solo potrà sparigliare meglio le carte nel Vecchio Continente o ancora in quanto con occhi ed orecchie puntati sulle elezioni di maggio i due azionisti principali dell’esecutivo, in piena competizione, senza esclusione di colpi, tra loro, pensano che chi strilla più forte avrà la meglio.

Sembra che non si tratti di mosse estemporanee, ma di una strategia di cui, però, non si comprendono bene gli obiettivi. Per il momento la polemica è con i “cugini francesi” che come noi sono uno dei fondatori dell’Ue ed uno tre Stati più grandi in termini di popolazione e economia. Abbiamo da mesi in atto una “querelle” sull’immigrazione, in cui credo che l’Italia abbia ragione da vendere. Ne abbiamo aperta una seconda sul caso Fincantieri-Stx mentre a questo punto sarebbe stato opportuno attendere un primo parere della direzione generale alla concorrenza dell’Unione europea a cui si è rivolta l’autorità antitrust francese. Infine, abbiamo aperto all’improvviso una querelle sul Franco Cfa.

Per entrare nel merito di questa querelle, occorre sapere cosa è il Franco Cfa e come funziona. In primo luogo, l’acronimo Cfa ha avuto negli anni vari significati: quando venne creato nel 1945, voleva dire franco delle Colonies Françaises d’Afrique, negli anni ’50 l’acronimo Cfa ha cambiato significato, per diventare Communauté Franco-Africaine e quindi Communauté Financière Africane, inizialmente unica per tutta la zona e successivamente divisasi in due aree gemelle, con due monete parimenti gemelle, Unione Economica e Monetaria dell’Africa Occidentale (Uemoa), con la Banca centrale a Dakar in Senegal, ed una Comunità Economica e Monetaria dell’Africa Centrale (Cemac) con la Banca centrale a Yaoundé nel Camerun. La “stanza di compensazione” è presso il Tesoro francese. Spesso politici italiani,  e sopratutto esponenti dell’attuale governo, hanno auspicato una funzione di compensazione analoga in un’istituzione dell’unione monetaria europea (la Bce?) per fare sì ad esempio che il forte attivo con l’estero della Germania serva ad attutire i disavanzi di altri Stati, facilitando le loro politiche di investimenti e di sviluppo.

Attualmente fanno parte delle due aree gemelle del Franco Cfa anche Stati che non provengono da esperienze coloniali francesi ma spagnole e portoghesi come la Guinea Bissau e la Guinea Equatoriale. Si tratta, per molti aspetti, di una “zona aperta” purché se ne accettino le regole di base. Ad esempio, ne sono usciti negli anni ’70, il Madagascar e la Mauritania ma hanno mantenuto un cambio fisso con il franco Cfa (e, quindi, con l’euro) e ciò ha comportato una politica monetaria conseguente. Ne sono usciti anche piccoli “territori e dipartimenti d’oltremare” come La Réunion, St. Pierre et Miquelon e Mayotte che avevano adottato il Cfa ma hanno, poi, preso l’euro come unità di conto, di transazione e di riserva. Il Mali ne uscì nel 1962 per rientrarvi nel 1968 in quanto considerò più conveniente stare “dentro” che “fuori”. Il Franco CFA ha, senza dubbio, facilitato la stabilità finanziaria degli Stati membri: il tasso l’inflazione è attualmente è sul 2% l’anno rispetto, ad esempio, del 17% della vicina Nigeria. Ne ha pregiudicato lo sviluppo dell’export a ragione dell’alta valorizzazione internazionale dell’euro (a cui il franco Cfa è agganciato)? È difficile dirlo dato che dal 1958 gli Stati Cfa godono di un sistema di preferenze tariffarie nell’Unione europea per i loro manufatti e semi manufatti ed anche di accesso privilegiato per loro produzioni agricole e, quindi, esportano prevalentemente verso il vecchio continente.

Tranne i pochi che sono stati tormentanti da guerriglie e guerre etniche, gli Stati Cfa sono anche quelli che, nonostante la loro povertà di ricchezze naturali, hanno da 25 anni tassi di crescita pari al doppio (5% l’anno) della media (2,5% l’anno) dell’Africa a Sud del Sahara nel suo complesso. È eloquente che meno dell’8% dei migranti alla volta dell’Europa proviene dall’area Cfa.

Si è trattato di una querelle del tutta gratuita ed in cui abbiamo fatto una brutta figura, perdendo carte utili che avremmo potuto utilizzare in materia di immigrazione, e facendo a noi stessi danni ancora più gravi.

È significativo, a riguardo, il fatto che il nostro Ambasciatore a Parigi sia stato convocato non – come vorrebbe il protocollo – dal ministro francese degli Esteri ma da quello degli Affari Europei. Vuol dire che eventuali ritorsioni saranno su piano europeo. Infatti, mentre le trattative per un eventuale Trattato del Quirinale, iniziate ai tempi del governo Gentiloni, sono state sospese, Francia e Germania hanno firmato il Trattato di Acquisgrana che segna una cooperazione molto rafforzata e pone i due Stati al centro della costruzione europea, lasciando il terzo “grande” Stato fondatore fuori la porta.

Sul mensile Formiche abbiamo ricordato che l’Italia non ha mai avuto il peso della Francia di De Gaulle, che poteva fare il bello e cattivo tempo, nei primi anni della costruzione europea. Abbiamo anche sottolineato che i costi dell’isolamento sono elevatissimi, tanto più che il nostro “alleato naturale” nel far da contrappeso all’intesa franco-tedesca, la Gran Bretagna, non è più parte dell’Unione.

Perché abbiano una strategia che pare avere l’obiettivo di fare male a noi stessi?


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