Quando arriva il 27 gennaio, giornata della memoria delle vittime della Shoah, ogni cosa è illuminata dall’ansia pedagogica di un mondo dei media che, come si fa con i coccodrilli preconfezionati per celebrare il personaggio pubblico che ha oltrepassato la soglia media di durata in questo mondo e da un momento all’altro se ne può andare, si tiene pronto a ricordare quegli orrori.
E così scorrono nelle tv pubbliche e private i quattro/cinque titoli dei film, sempre quelli, che raccontano con crudezza o con poesia dei campi di concentramento nazisti, le interviste con i sopravvissuti, le dichiarazioni ufficiali dei reggitori della cosa pubblica, le visite delle scolaresche ad Auschwitz, qualche documentario con le terrificanti riprese fatte dagli alleati nei campi appena abbandonati dalle SS. Insomma, una celebrazione appropriata, doverosa, didattica, non c’è che dire. Ma, mi domando, riesce a cogliere pienamente lo spirito di una celebrazione che deve avere il senso non solo del doveroso ricordo, ma anche dell’ammonimento per i contemporanei? Perché la celebrazione interpretata come adempimento necessario imposto dal galateo del calendario rischia di tramutarsi in rito e poi di far svaporare il suo significato più profondo.
Per capirci: a parte qualche emulo nazifascista, comunque pericoloso, che se ne va in giro a rubare le pietre d’inciampo, a imbrattare muri con scritte oscene e a fare danni alle cose e alle persone, ci sembra che il sentiment più largo del popolo italiano sia irrefutabilmente di piena condanna del nazifascismo e dei suoi crimini contro l’umanità. Ma fin qui è tutto facile. Il difficile è quando, invece, fuori dalla ritualizzazione ufficiale, ci si domanda che cosa è oggi, veramente, l’essere democratici e antifascisti.
La prima cosa che viene in mente è partecipare ai valori costituzionali, fondamento della nostra comunità nazionale. Bene. Ma in quei valori, ai primissimi posti ci sono parole come solidarietà, uguaglianza, dignità della persona umana. Domandiamoci con sincerità se siamo convinti di condividerli nel dibattito pubblico che ha assunto le parole d’ordine violente dell’esclusione, della chiusura, rasentando talvolta addirittura venature razzistiche. E non mi riferisco solamente al clima che si allestisce intorno ai migranti, profughi e terzomondisti di passaggio per i suoli o per i mari italici. Intendo il “clima”, il turgore delle parole usate da chi ha responsabilità pubbliche e l’assuefazione alla loro durezza: credo che Hannah Arendt intendesse riferirsi proprio a questo quando parlava di “allineamento”, nel senso di accettazione e condivisione del popolo tedesco delle parole d’ordine naziste.
Ecco, allora, ciò che manca alla nostra giornata della memoria: oltre il giusto ricordo delle vittime, il monito a sorvegliare il presente per non scivolare più in quell’allineamento che portò un civilissimo popolo a rendersi complice delle atrocità da cui prendiamo tutti, sinceramente, le distanze. Come poté avvenire? Cedendo giorno per giorno qualcosa della civiltà fino a considerare la barbarie come una ineluttabile normalità.