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La partita a scacchi tra Usa, Cina e Russia

Di Vittorio Emanuele Parsi

Il 2018 è stato un anno di forte contrapposizione tra Stati Uniti, Cina e Russia su praticamente ogni tema. Oltre al dossier ucraino, una questione potenzialmente esplosiva per i rapporti tra Washington e Mosca riguarda senz’altro il tentativo comprovato di manipolazione della vita politica americana da parte di hacker russi.

Un problema serio per gli Usa, molto abituati a interferire nella politica interna di altri Stati – come dimostrano le intercettazioni effettuate dalla Cia, sotto l’amministrazione Obama, a danno dei principali leader europei –, ma per nulla inclini a subire lo stesso trattamento da parte di potenze rivali. Per tale ragione, aver constatato di essere vulnerabili ad attacchi informatici da parte dei russi ha generato negli americani uno stupore paragonabile a quello destato, a suo tempo, dal lancio dello Sputnik.

Tutto questo pone ostacoli difficilmente sormontabili per le prospettive di disgelo coi russi. Sul fronte geopolitico, l’affermazione dell’influenza russa in Medio Oriente ha ridefinito lo scacchiere del quadrante. Con la fase acuta della crisi siriana ormai alle spalle e con la fine della presenza territoriale di Daesh in Siria e in Iraq, la Russia ha consolidato in maniera decisiva il regime di Assad e dato enfasi al successo diplomatico e politico iraniano nell’area.

Al contempo, al di là delle azioni di pattugliamento congiunto nel Kurdistan siriano che turchi e americani stanno effettuando da qualche mese, la presenza russa sembra aver accentuato l’allontanamento della Turchia dagli Stati Uniti e dall’Occidente in generale.

Il Medio Oriente risulta, per tali ragioni, altamente instabile, con sauditi e israeliani che non sembrano disposti ad accettare l’attuale status quo. In questo scenario di instabilità si innestano il recesso degli Usa dal Joint comprehensive plan of action e l’inizio di sanzioni unilaterali che coinvolgono sostanzialmente tutti i Paesi del mondo, con conseguenze potenzialmente molto pericolose. È infatti possibile che il regime iraniano, messo con le spalle al muro e posto in una prospettiva di sopravvivenza, possa reagire in modo sempre più disperatamente aggressivo.

L’unico Paese realmente in grado di far fallire i piani degli americani per l’Iran è la Cina. L’estremamente opaco sistema creditizio cinese è caratterizzato da banche regionali, con grandi disponibilità finanziarie, scarsamente esposte sul piano internazionale e, dunque, parzialmente immuni alle possibili ritorsioni americane. Attraverso queste banche, la Cina potrebbe quindi facilmente aggirare il meccanismo sanzionatorio americano, fornendo all’Iran una linea di credito e quindi una via d’uscita dall’isolamento finanziario, assicurativo e tecnologico che mira a strangolarne l’economia.

Altra fonte di frizione tra Usa e Cina è quella dei big data. Nelle ultime settimane, sui principali giornali americani ha tenuto banco l’accusa, rivolta ai cinesi, di aver sottratto 500 milioni di dati sensibili relativi a clienti della catena alberghiera Marriott. Le capacità informatiche della Cina potrebbero consentire al Paese del Dragone un salto strategico che renderebbe vano l’enorme gap con gli Usa dal punto di vista delle capacità di proiezione della forza militare.

Su questo campo di battaglia, pertanto, assisteremo a una partita a scacchi tridimensionale. Ed è in questo contesto che va inquadrato il tentativo di Trump di avviare una discussione a 360 gradi con la Cina che coinvolga la questione dei dazi, le sanzioni all’Iran e, appunto, i rischi di una guerra informatica.

La posta è stata alzata ulteriormente da Xi, il quale, nel corso del suo discorso per il quarantesimo anniversario della riforma di Deng Xiaoping, ha rimarcato come la Cina non miri all’egemonia mondiale, ma non voglia nemmeno ricevere condizionamenti da player esterni. Un bel problema, questo, se si considera come la Cina continui a violare in modo lapalissiano ogni regola del Wto sulla proprietà intellettuale, sul commercio e sull’aiuto alle imprese. E con la sua crescita economica in fase di rallentamento, sarà ancora più difficile ipotizzare che la Cina inizi ora a comportarsi come un partner commerciale corretto nei confronti degli Stati Uniti e dell’Occidente in generale.

Ulteriori tensioni, infine, riguardano le mai sopite pretese cinesi di sovranità sul Mar cinese meridionale. Questi propositi contribuiscono ad accrescere gli attriti con gli altri Stati che si affacciano su queste acque. E in primis con il Giappone, che ha recentemente annunciato di tenere in considerazione l’opportunità di trasformare due cacciatorpediniere tuttoponte in portaerei per jet a decollo e atterraggio verticale.

Come reagirà la Cina? La questione riguarda tutti, così come un interesse internazionale rivestono le sfide poste dalla Cina in campo finanziario, cibernetico, strategico e commerciale. Anche per tale ragione, la fragilità europea risulta particolarmente raccapricciante e pericolosa, specie se pensiamo che dalle prossime elezioni europee potrebbero risultare assetti ulteriormente destabilizzanti.

Grande assente all’ultimo Summit Cop24 di Katowice sul clima, l’Ue è apparsa decisamente divisa su questo tema, così come una posizione europea comune è fin qui mancata rispetto al Global compact dell’Onu sulle migrazioni. L’Europa appare dunque latitante rispetto ai dossier delle grandi sfide globali di lungo periodo, ma sembra assente anche dalle tradizionali sfide della sicurezza internazionale e della politica strategica. Temo dunque che se l’Ue non si dimostrerà velocemente capace di dare un deciso colpo di reni, il rischio, quanto mai concreto, è che l’Europa tutta si condanni a una definitiva irrilevanza.

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