Più la si analizza, più la riforma costituzionale volta ad introdurre una forma di referendum approvativo di proposte di legge di iniziativa popolare appare una bomba ad orologeria posta sotto l’edificio della nostra democrazia rappresentativa.
In sintesi, il progetto prevede che 500.000 elettori possano presentare una proposta di legge ordinaria che il Parlamento deve esaminare nei successivi diciotto mesi. Se le camere approvano il testo, il procedimento è concluso. Se non deliberano entro il termine oppure se approvano un testo diverso, anche solo su aspetti marginali, si fa luogo ad un referendum. Nella prima ipotesi, è sottoposta al giudizio del corpo elettorale solo l’iniziativa popolare. Nella seconda ipotesi, sono posti in alternativa il testo dell’iniziativa popolare e quello approvato dalle camere. Per la validità del referendum non è richiesto alcun quorum.
Le critiche che si possono avanzare sono più d’una.
In primo luogo, in nessun paese di democrazia avanzata è previsto un referendum approvativo di leggi ordinarie statali o federali che originano dall’iniziativa popolare. Una ragione ci deve pur essere. Un istituto del genere si pone in concorrenza con la funzione legislativa del parlamento e può delegittimarlo, compromettendo uno dei cardini della democrazia rappresentativa.
Nel progetto di riforma non è previsto alcun limite alle iniziative popolari. La raccolta delle 500.000 firme potrebbe essere utilizzata per numerose proposte di legge. I Radicali di Pannella in passato lo hanno fatto per le richieste di referendum abrogativi. La differenza è che nel disegno della riforma le camere sono obbligate a prendere una decisione entro diciotto mesi se non vogliono che venga indetto il referendum su ciascuna iniziative. In sostanza, le camere potrebbero essere espropriate della decisione circa la determinazione del loro ordine del giorno, o comunque almeno in una parte significativa.
Le camere non possono modificare anche solo parzialmente e in maniera non sostanziale il testo dell’iniziativa. Se vogliono evitare la prova referendaria e lo scontro politico ad esso connesso, devono approvarlo così com’è. Mi pare una forte coartazione della libertà di decisione del Parlamento.
Se le camere modificano il testo dell’iniziativa si avrà un referendum alternativo tra la proposta popolare e quella approvata in Parlamento. Un istituto del genere esiste in Svizzera, ma solo per le leggi costituzionali, cioè per decisioni di carattere fondamentale e più rare dell’approvazione di una legge ordinaria. Estenderlo alla legislazione ordinaria significa porre i presupposti o di un conflitto abbastanza frequente tra Parlamento e corpo elettorale o giungere allo scioglimento delle camere, delegittimate dell’esito del referendum favorevole all’iniziativa popolare.
Nel testo originario della proposta di legge costituzionale non è previsto alcun quorum per la validità del referendum. Una percentuale anche assai ridotta di votanti potrebbe imporre al paese una legge. A parte ogni obiezione di buon senso, vi sarebbe un elevato rischio di manipolazione di una ristretta quota di cittadini da parte di gruppi di interesse e il prevalere di minoranze organizzate. Un quorum deve essere previsto. Per fortuna, in commissione affari costituzionali della camera, proprio oggi si è profilato un accordo in tal senso: prevedere che l’esito del referendum è positivo se i sì costituiscono almeno il venticinque per cento del corpo elettorale, indipendentemente dal numero dei votanti. È una soluzione accettabile che elimina uno dei difetti maggiori. Vedremo se l’accordo terrà fino in fondo.
Resta infine il problema dei limiti all’iniziativa popolare. Il testo della maggioranza dice che il referendum non è ammissibile se la proposta non rispetta i principi e i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione nonché i vincoli europei e internazionali, se non ha contenuto omogeneo e se non provvede ai mezzi per far fronte ai nuovi o maggiori oneri che essa importi. L’ammissibilità è valutata dalla Corte Costituzionale. Anche qui fanno capolino aspetti inquietanti. È troppo vago il richiamo al rispetto dei principi e diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. Una legge ordinaria deve rispettare tutte le norme costituzionali. In caso contrario, sarebbe esposta ad una successiva pronuncia di incostituzionalità ad opera della Corte Costituzionale con il rischio di contrapporre la Corte alla volontà del popolo.
Pericolosa è poi un’iniziativa popolare in materia di spesa pubblica perché, anche se deve prevedere la copertura finanziaria, può compromettere l’equilibrio di bilancio che è sottoposto a vincoli costituzionali. Immaginate la sottoposizione a referendum di una proposta di legge in materia pensionistica con la previsione di vantaggi per quasi tutti i votanti? C’è il rischio di una deriva populista e, nello stesso tempo, della compressione di diritti di minoranze svantaggiate dal provvedimento.
In conclusione, dietro lo specchietto per le allodole di favorire la partecipazione dei cittadini e di dare voce al “popolo”, si nasconde, e nemmeno tanto, un disegno che potrebbe mettere in ginocchio il parlamento e scardinare uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione, vale a dire la democrazia rappresentativa. Ciò si farebbe per aprire la strada ad una mitica democrazia “diretta” in cui è il popolo a decidere e non le élites. In realtà, in ogni regime politico si formano naturalmente delle élites e ciò accadrebbe anche in una democrazia caratterizzata da istituti di c.d. democrazia diretta. Gruppi ristretti potrebbero condizionare l’esito dei referendum dando all’istituto una connotazione plebiscitaria, che è quanto di più lontano dalla vera democrazia. Per evitare questo rischio e perché la riforma possa costituire un aggiornamento dell’istituto referendario che si innesti utilmente sul tronco della democrazia rappresentativa, essa deve essere profondamente modificata.