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Contrattazione e partecipazione, le sfide del futuro. L’analisi di Pirani

È stato un anno importante per la contrattazione che riguarda il nostro settore. Il 19 luglio abbiamo rinnovato il contratto chimico-farmaceutico e ci apprestiamo a negoziare i rinnovi contrattuali inerenti, tra gli altri, a gas-acqua, energia-petrolio, elettricità.

LA NUOVA STAGIONE CONTRATTUALE

Nel primo caso, quello per esser più precisi del rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro per gli addetti all’industria chimica, chimico-farmaceutica, delle fibre chimiche e dei settori abrasivi, lubrificanti e Gpl, relativo al periodo 2019-2022, è stata la prova dell’efficienza e della competitività di un settore caratterizzato da relazioni industriali moderne e di qualità. Nel testo in questione sono emerse importanti novità in ambito economico e normativo, con al centro i temi della responsabilità sociale, della formazione, della produttività, dell’occupazione e della flessibilità. Anche la stagione contrattuale che si è aperta in questo fine autunno ha l’obiettivo di tutelare il potere d’acquisto dei lavoratori in un momento di bassa crescita del Paese, sottraendolo alla sola misura dell’inflazione. È l’unico modo per poter scommettere su una possibile ripresa dell’economia nazionale attraverso l’innovazione del sistema contrattuale. Il valore di un sindacato poggia proprio sulla capacità di rinnovare i contratti basandosi su un valido modello delle relazioni industriali.

I PROBLEMI DEL SETTORE FARMACEUTICO

Il documento sulla governance farmaceutica diffuso dal dicastero della Sanità lo scorso mese di dicembre contiene ricette vecchie che rischiano solo di fermare la ricerca e lo sviluppo che ha consentito in questi ultimi anni al settore farmaceutico di crescere e fare investimenti. Le imprese del farmaco rappresentano infatti il pilastro della ricerca in Italia: con 1,5 miliardi di euro nel 2017 sono il primo settore per investimenti in innovazione per addetto. La scelta di equiparare farmaci generici e branded non ha senso per due motivi. Il primo è che lo Stato rimborsa comunque solo quello che costa meno, per cui non perde nulla dalla scelta di un farmaco branded, il secondo è che così non si invoglia nessuna realtà a fare ricerca. E questo rappresenterebbe un grave danno allo sviluppo di farmaci innovativi, fondamentali per il benessere dei malati. Dire che i farmaci sono tutti uguali non ha senso, perché non lo sono. E ancor di più non lo sono perché differenti sono i pazienti, ognuno con le proprie peculiarità e ognuno che risponde a una terapia in maniera differente da un altro. Ma il grande rischio di queste misure è che frenino l’economia e la crescita delle industrie nazionali farmaceutiche, che ad oggi fra diretto e indotto occupano circa 130 mila persone, 232 mila con la filiera distributiva. Dobbiamo ricordare che negli anni di piena crisi, l’industria farmaceutica faceva +24%. Tra l’altro, quando si va a prendere una determinata decisione, bisogna tener conto delle ripercussioni su tutti gli altri settori. Non si possono mettere in difficoltà le aziende farmaceutiche e poi lamentarsi perché chiudono, lasciando le persone a casa. Ora l’industria farmaceutica è in un momento di attesa e prevale la cautela, per capire come si definirà il quadro normativo, che al momento genera incertezze negli investitori.

LE DIFFICOLTÀ DEL SETTORE CHIMICO

Dopo un 2017 molto positivo (+3,5%), nel 2018 l’industria chimica in Italia mostra un andamento deludente (+1,5% nei primi 10 mesi) in un contesto di particolare debolezza del settore a livello europeo (-0,1%). I segnali di ulteriore rallentamento – registrati dalle imprese nei mesi più recenti, soprattutto sul fronte della domanda interna – portano a stimare per la chiusura d’anno una crescita limitata all’1%. L’evoluzione congiunturale, di non facile lettura per il sovrapporsi di fattori di natura diversa, desta preoccupazione soprattutto in prospettiva del 2019. L’industria chimica risente in modo amplificato dell’incertezza: le politiche di acquisto dei clienti sono orientate alla massima cautela e la volatilità delle quotazioni petrolifere rappresenta un ulteriore fattore di disturbo. Il settore soffre del generalizzato rallentamento di quasi tutti i settori clienti, della mancata ripartenza delle costruzioni in Italia e della brusca frenata della produzione europea di auto. Anche l’export – dopo il forte progresso del 2017 (+9% in valore) – mostra un andamento sottotono (+2% in valore). Pesa, in particolare, il calo delle vendite in Germania (-3%) che rappresenta il principale mercato di destinazione. Nell’ipotesi che i fattori di freno temporanei a livello europeo possano essere superati e che una soluzione di compromesso sulla politica fiscale possa mitigare le tensioni finanziarie, nel 2019 si prevede una crescita della produzione chimica in Italia pari allo 0,7%. Anche sul piano internazionale permangono, però, numerosi fattori di rischio che potrebbero condizionare l’andamento del settore: le tensioni commerciali (preoccupa, in particolare, la minaccia di limitazioni alle importazioni americane di auto), i contrasti interni all’Europa (anche in vista delle elezioni del Parlamento europeo) e le possibili turbolenze per l’inversione della politica monetaria. Un quadro normativo e infrastrutturale consono alle esigenze di competitività delle imprese chimiche è più che mai necessario e imprescindibile per il raggiungimento degli obiettivi di crescita e sostenibilità di tutto il Paese.

LA PARTECIPAZIONE

In questo contesto occorre puntare su una politica salariale nuovamente espansiva. La questione salariale non è tale da poter essere risolta in un solo atto contrattuale. Né può essere delegata soltanto alla contrattazione di secondo livello che è ben lungi dall’essere generalizzata. Eppure si fa strada la convinzione che anche in questo caso è quanto mai opportuna una svolta, responsabile ma determinata. Cresce, e non poteva essere altrimenti, il valore della contrattazione decentrata e del welfare aziendale che non può assolutamente essere però confuso con un travaso di coperture e tutele dal sistema nazionale a quello di impresa. Ma al tempo stesso va ribadita la rilevanza anche per il futuro di questo percorso rivendicativo. Se ribadiamo il valore decisivo del ruolo contrattuale nel prossimo futuro, lo si fa anche perché i cambiamenti proseguiranno inesorabili e ci proporranno nuove sfide. Bisogna compiere un importante passo in avanti sulla partecipazione, uno strumento valido per evitare la dispersione sociale nei luoghi di lavoro, ma anche per essere in grado di influire sulle scelte produttive e di una organizzazione del lavoro dai profili molto diversi rispetto a quelli dei decenni scorsi. La partecipazione è un banco di prova per tutto il sindacato che difficilmente si potrà aggirare. È importante affrontarlo con uno spirito unitario, lasciando alle spalle i fantasmi di vecchie e superate rigidità ideologiche. Il contesto nel quale il sindacato sarà chiamato ad operare implicherà però anche una presenza come protagonista contrattuale che non potrà essere costretto nei soli confini nazionali. Lo impone il predominio di regole ed attori economici, politici e finanziari che non tengono conto, come si vede sempre meglio, degli steccati nazionali.

In questa prospettiva i sindacati europei si trovano di fronte ad un bivio: o finire per essere irrilevanti sulle grandi decisioni economiche ma anche riguardanti il lavoro, oppure trovare convergenze che superino le convenienze particolari e li proiettino oltre un puro e semplice ruolo di pressione sui governi nazionali. Servirà su questo piano un lungo lavoro di carattere culturale e di armonizzazione delle scelte sindacali, ma sarebbe un grande segno di novità che potrebbe restituire un’anima sociale e solidale alla Europa. Questo impegno sindacale potrebbe essere importante per indirizzare la devoluzione di poteri verso l’Unione europea non come un groviglio di funzioni per euro-burocrati, ma come un modo costruttivo e graduale per ridisegnare una migliore identità dell’Europa comprensibile ed accettata da milioni di lavoratori e di giovani. Insomma, la nuova stagione contrattuale in corso dovrà essere in grado di dimostrare il valore dei settori nei quali opera il nostro sindacato al fine di dare stabilità e forza alla situazione economica. Molto del lavoro che si svolge nei nostri settori, infatti, è proiettato naturalmente sul versante dell’innovazione. Questa considerazione può diventare al tempo stesso una sfida per l’azione sindacale ma anche un incentivo a sentire l’impegno sindacale come un contributo importante per evitare il declino economico e sociale.

OCCUPAZIONE E SALARI

L’occupazione costituisce un fattore fondamentale per la ripresa del Paese, ma preoccupa che finora non si sia tradotta in un aumento del volume di lavoro rispetto al periodo precedente alla crisi. Negli anni più recenti la ripresa dell’economia ha creato molti posti di lavoro, l’occupazione ha recuperato i livelli pre‐crisi, tuttavia il volume di lavoro, in termini di ore lavorate resta ancora inferiore; la crescita dell’occupazione ha aumentato differenze di genere e squilibri territoriali: sono aumentati gli occupati con orari ridotti; più occupati part‐time, soprattutto donne; minor crescita al sud; crescita polarizzata sulle basse qualifiche; la disoccupazione rimane alta, soprattutto tra i giovani. Aumenta il lavoro povero caratterizzato da bassi salari; da bassa intensità di lavoro; da occupazione precaria e poco qualificata; dalla compressione costi-salari; dalla concentrazione in settori come agricoltura, costruzioni e servizi: alloggio e ristorazione, servizi sociali e alle persone. Inoltre, stanno cambiando i contorni, i contenuti e le forme del lavoro, e cambiano le tutele: le prestazioni di lavoro si svolgono in un ambiente digitale che collega la domanda all’offerta, che coordina le prestazioni di lavoro, che misura la qualità delle prestazioni, che predice i bisogni dei consumatori e dei venditori. Data la gravità di questo fenomeno, che in Italia è più grave che nei Paesi europei più vicini, il contrasto alla povertà non può non essere una priorità delle nostre politiche pubbliche e anche dell’azione delle parti sociali. Tale compito spetta in primis alla contrattazione collettiva nazionale che è decisiva per sostenere i redditi dei lavoratori e per ridurre le diseguaglianze.

Uno degli strumenti di contrasto al lavoro povero, adottato in quasi tutti i paesi europei è il salario minimo legale: è bene anche ribadire che le ricadute dell’introduzione di questa misura sulla disoccupazione sono nulle e quelle sull’occupazione sono assai modeste. Il salario minimo non è certo l’unica misura che può contrastare il lavoro povero, ma potrebbe garantire una protezione più efficace nei confronti dei bassi salari, riducendo la discrezionalità e gli abusi nella determinazione dei livelli retributivi. Nei confronti di alcuni gruppi di lavoratori, come ad esempio i giovani e gli apprendisti dovrebbe essere utilizzata particolare cautela introducendo deroghe come già avviene in molti Paesi europei. Servono, in ogni caso, misure ulteriori, è necessaria una significativa riduzione stabile del cuneo fiscale sulle retribuzioni, con particolare riguardo a quelle dei lavoratori con basso salario; e tale misura è da combinare con politiche dirette a favorire la partecipazione dei lavoratori a buone occasioni di lavoro e ad accrescere l’intensità occupazionale. Risulta evidente che bisogna imboccare una via alta alla crescita; occorre una rapida svolta alla cronica mancanza di investimenti, all’insufficiente capitale umano, alla diffusione di micro imprese; è necessario evitare che la crescente competitività dei mercati si scarichi sul costo del lavoro e su salari più bassi; è indispensabile un piano d’azione per il Sud. Si può osservare, che l’assenza di opportunità lavorative prevale come causa di povertà della famiglia nel suo complesso. Vi è anche un problema di ridisegno del prelievo. Poi, l’aumento nel tempo dei bassi redditi da lavoro è intervenuto con riferimento ai redditi mensili e annui, più che a quelli su base oraria. Insomma, bassa intensità e scarsa qualificazione dell’occupazione sono difficili da affrontare perché sono interne alla struttura dell’economia italiana che ormai da parecchi anni non vede crescere quei settori e quelle attività ad elevata produttività e alto valore aggiunto che soli sarebbero in grado di offrire posti di lavoro molto qualificati e a tempo pieno.

È significativo, va sottolineato ancora una volta, che la debolezza della nostra occupazione sia dovuta in larga misura alla carenza di occupati a tempo pieno e indeterminato soprattutto con qualificazione medio alta. Per questo il ricorso a incentivi diretti a sostenere l’occupazione a tempo pieno e indeterminato è di per sé insufficiente. Servono invece interventi strutturali, a cominciare da maggiori investimenti pubblici e privati soprattutto nei settori innovativi dell’economia e per altro verso nella formazione di qualità dei lavoratori e anche degli imprenditori. Sono richieste che poniamo da tempo e che in parte colmiamo coi risultati contrattuali e con le piattaforme rivendicative in itinere rivolte alle controparti. Ma è indispensabile una politica industriale basata su scelte oculate e coerenti rivolte alle strutture materiali ed immateriali. La qualità e l’utilità degli investimenti andrebbero valutate da istituzioni indipendenti come avviene in altri Paesi. Tale valutazione renderebbe più forte la giusta richiesta all’Europa di scomputare le risorse dedicate a tali investimenti dal calcolo del deficit. Esiste la necessità non solo di aumentare gli investimenti nella scuola e negli insegnanti, anche per recuperare i ritardi del passato, ma anche di ripensare le priorità degli interventi e di rinnovare i metodi e i contenuti degli insegnamenti. Le migliori pratiche italiane e internazionali confermano che un insegnamento all’altezza delle sfide attuali deve saper combinare in modo nuovo la formazione di competenze tecniche e specialistiche con l’arricchimento delle conoscenze di base e con lo sviluppo delle capacità relazionali e di risposta positiva ai cambiamenti. Queste sono capacità che le macchine intelligenti non possono replicare e che continueranno a essere richieste anche in contesti ad alta intensità tecnologica. Inoltre le stesse pratiche indicano la importanza di lasciare l’accesso ai vari istituti formativi nel corso della vita alle scelte dei singoli e di dotarli di strumenti adeguati.

FORMAZIONE E OCCUPABILITÀ

La formazione è ormai sempre di più parte strutturale del lavoro e della valorizzazione delle competenze delle persone e quindi della loro occupabilità, è necessario rendere più agibile la norma per sviluppare confronto e condivisione sui piani formativi: deve essere consolidata e rafforzata la figura del delegato alla formazione, il suo ruolo, accrescere le sue competenze attraverso moduli formativi specifici per qualificare il confronto aziendale che deve misurarsi alle effettive esigenze dei lavoratore e delle imprese. L’obiettivo deve essere quello di implementare la formazione continua, a sostegno alla formazione professionale per adeguare le conoscenze e competenze dei lavoratori, giovani e anziani ai grandi cambiamenti che sono già in corso nella organizzazione del lavoro, nelle tecnologie, per gestire la convivenza generazionale e l’invecchiamento attivo. Occorre migliorare la formazione delle rappresentanze sindacali, del management aziendale ma anche delle strutture sindacali locali per favorire il processo di conoscenza e di capacità di interlocuzione sulle tematiche di settore ed aziendali, sulle Relazioni Industriali. Perciò che riguarda il tema dell’invecchiamento attivo e per favorire la convivenza generazionale, a livello aziendale è necessario prevedere specifici percorsi formativi per adeguare le competenze e la valorizzazione delle esperienze acquisite attraverso modalità di interazione ed affiancamento con il personale più giovane. Risulta fondamentale riconoscere che la certificazione della formazione svolta in azienda sia trasferibile all’interno dei settori rappresentati attraverso un libretto formativo in dote al lavoratore, per valorizzare professionalità e bagaglio di esperienza.

Nel contesto sociale attuale e di grandi cambiamenti tecnologici e organizzativi dovremo affrontare diverse problematiche legate anche al mercato del lavoro, tra i quali quello della occupabilità delle persone nei processi di riorganizzazione e ristrutturazione, di crisi aziendale, di agevolazione del turn-over, di inserimento nel mondo del lavoro in particolare dei giovani: oggi il tema dell’alternanza scuola-lavoro sta assumendo rilevanza sul piano formativo e per il futuro ingresso nel mercato del lavoro e quindi per la loro occupabilità: questa formazione va promossa sia attraverso il contratto nazionale sia a livello aziendale, con specifici progetti e percorsi condivisi. Il tema della disabilità contrattualmente deve trovare alcune risposte per consentire alle persone pari dignità e diritti. In questo senso vanno messe in campo iniziative a partire dalla costituzione di specifici Osservatori Tecnici Aziendali, da regolamentare con accordi sindacali che ne stabiliscano pariteticità e compiti, che agiscano quale organismo di garanzia per favorire l’inclusione e contrastare forme di discriminazione. In materia di flessibilità organizzativa e di orario di lavoro dovrà essere favorito lo sviluppo di istituti di conciliazione tempi di vita/lavoro, come il lavoro agile anche a valle della recente approvazione della normativa di riferimento. Per i rapporti di lavoro a tempo determinato e somministrazione è necessario ridefinire il quadro normativo contrattuale complessivo, in particolare rispetto al riferimento all’unità produttiva, alle percentuali anche in relazione alle differenze nord sud, alla durata ed al diritto di precedenza, anche alla luce dei recenti interventi legislativi ancora in fase di approvazione.

BISOGNO DI INVESTIMENTI

Esistono le potenzialità per uscire dal guado in tempi celeri imboccando la strada della ripresa civile ed economica in ambito nazionale. La crescita civile sta nel senso di ritrovare il gusto dell’agire comune, evitando personalismi e scelte di convenienza individuale, operando al servizio della comunità. Per quanto riguarda la crescita economica occorre, da un lato, scegliere la via degli investimenti pubblici e privati a favore delle strutture materiali e immateriali di questo Paese; dall’altro, è indispensabile che i medesimi investimenti prendano la via della rinascita industriale e di quella manifatturiera, in particolare. L’Italia, tra le altre cose, abbisogna di un grande piano per la ricostruzione e la salvaguardia delle opere pubbliche; ma c’è soprattutto necessità di una determinazione precisa e dettagliata della politica industriale che si intende praticare in Italia. Occorre cambiare paradigma nelle politiche di sviluppo e innovazione nel senso finora indicato: bisogna creare un rapporto diverso con il territorio, avviando quel piano di opere pubbliche che metta in sicurezza il Paese e iniziando a riconvertire l’industria verso quelle tecnologie che consentano un maggior equilibrio ambientale. Per quanto concerne, invece, le scelte di politica industriale, risulta strategico favorire gli investimenti privati, soprattutto di gruppi stranieri, verso le diverse aziende nazionali che si sono affermate sui mercati esteri e che hanno riportato qui da noi tante produzioni precedentemente delocalizzate all’estero.

Addirittura, grandi imprese straniere sono venute a investire in Italia, come dimostrano molti esempi nel campo del settore industriale, in quelli della chimica e della farmaceutica, come in molti altri del comparto manifatturiero. I segnali di ripresa, anche se timidi rispetto agli altri competitor europei, giungono proprio dal succitato versante. E sono gli investimenti privati, in particolare modo quelli provenienti da fuori dell’Italia, che possono costituire il vero carburante per far accelerare il motore della crescita manifatturiera, garantendo immediatamente produzioni e lavoro. È bene sottolineare un paio di esempi riguardante l’industria chimica e quella farmaceutica. Nonostante delle turbolenze in ambito finanziario e geopolitico, per l’industria chimica continuano a esserci previsioni di crescita in ambito produttivo in linea coi parametri europei e nell’ambito delle esportazioni, soprattutto verso gli Stati Uniti. L’industria farmaceutica va ancor meglio: crescono produzione, investimenti, esportazioni, occupazione. Questo trend si è consolidato ancor di più nel 2017 e presenta prospettive ottime per l’anno in corso. Le imprese della chimica e del farmaco sono di fatto un patrimonio industriale che può rappresentare il vettore per il rilancio dell’intero comparto manifatturiero. Però bisogna agire in tempo utile. La Banca d’Italia, a luglio, ha reso noto che nei primi tre mesi del 2018 le imprese manifatturiere hanno ridotto gli investimenti materiali e immateriali. Poi, c’è stata una ripartenza degli investimenti stessi. Infine, si è registrata un’ulteriore stasi rispetto a un quadro economico in difficoltà e all’attesa sull’evoluzione della domanda interna e di quella estera. Questo “stop and go” limita i potenziali benefici rispetto agli investimenti finora adottati. Quindi, non bisogna perdere gli effetti di quel poco di ripresa che c’è; si deve ampliare il ciclo di investimenti a favore di opere pubbliche e dell’industria manifatturiera; occorre alleggerire il peso fiscale che grava sui lavoratori e sulle imprese; è una scelta vitale mantenere in Italia gli investimenti delle imprese estere e attrarne di nuovi.

 



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