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Perché diciamo no al referendum sulla Tav

Di Stefano Cianciotta e Donatello Aspromonte
Infrastrutture Investire

Con la discussione sul rapporto costi-benefici della Tav, per la prima volta un’analisi relegata nelle ultime pagine di uno studio di fattibilità ha assunto un’enfasi mai avuta prima. Qualche mese fa, infatti, il ministro Danilo Toninelli ha dato mandato a sei illustri economisti e tecnici specializzati sulle infrastrutture di redigere una valutazione comparata dei costi e dei benefici del progetto, al fine di valutarne la “necessità realizzativa”, partendo dal giusto assunto che la fattibilità di un progetto di un’infrastruttura strategica non può prescindere da un’attenta analisi costi-benefici, in grado di dimostrarne la sostenibilità finanziaria e l’utilità economico-sociale, anche sotto il profilo ambientale.

Il principio proposto è assolutamente corretto: non si possono spendere risorse pubbliche se l’opera non crea benessere economico – ampiamente inteso – per la collettività. In un’intervista uno dei redattori ha affermato che l’analista deve guardare tutti i numeri e non vi è il tempo per fare analisi originali.

Qualche domanda a questo punto ce la siamo posta: facciamo dipendere la valutazione strategica di proseguire o arrestare i lavori della principale dorsale di trasporto europeo da una valutazione che non prende in considerazione (almeno così sembra) tutti gli aspetti progettuali? Facciamo dipendere la possibilità di interconnettere il nostro sistema trasportistico alle reti lunghe europee dalla mancanza di tempo (presunta) per sviluppare necessarie analisi tecniche, trasportistiche ed economiche di supporto?

Il fatto di considerare solo alcuni aspetti (per questioni di tempo o di costo), magari tralasciando quelli di difficile quantificazione o per i quali servirebbero ulteriori analisi a supporto, potrebbe portare a delle valutazioni non corrette e avere conseguenze nefaste per il futuro del nostro Paese. Un’attenta valutazione dei costi e dei benefici dovrebbe sforzarsi di inglobare tutti gli aspetti del progetto: da quelli di tipo trasportistico (in termini di minori e maggiori tempi di percorrenza e costi legati alle alternative modalità di trasporto), a quelli sanitari, legati agli effetti generati dalla riduzione del trasporto merci su gomma ed alla relativa riduzione di emissioni inquinanti, con un calcolo preciso dell’impatto ad esso associato. Ed ancora, alla quantificazione degli effetti moltiplicativi di sistema che l’opera sarà in grado di generare, stimando i benefici per il sistema produttivo di questo Paese derivanti dal fatto di essere inseriti nelle cosiddette reti lunghe di trasporto europeo.
Discutere di analisi costi-benefici in questi termini, pertanto, può essere pericoloso e fuorviante, e rischia di far commettere gravi errori al decisore pubblico.

L’Italia, a differenza di altri Paesi (Francia, Germania e Gran Bretagna in primis), è poco incline all’utilizzo di metodologie finalizzate ad una valutazione quantitativa preventiva dei progetti, in grado sia di valutarne gli aspetti finanziari, economici, sociali ed ambientali. L’Italia ha deliberatamente deciso di non dotarsi di un sistema di linee guida di valutazione degli investimenti pubblici e di standard valutativi adeguati per la selezione delle infrastrutture pubbliche, demandando le decisioni delle opere infrastrutturali ad interessi particolari e localistici.

Il tentativo di dotarsi di una normativa ad hoc, per ridefinire i criteri di valutazione degli investimenti in opere pubbliche (Dlgs 228/2011 e Dpcm 3 agosto 2012), ha affermato che le opere pubbliche dei ministeri, ivi incluse quelle strategiche, dovevano essere soggette ad una preliminare valutazione ex ante e successiva prioritarizzazione (in fase di programmazione complessiva) con metodologia costi-benefici.

Ad oggi, purtroppo, il testo normativo è rimasto lettera morta e le decisioni sulle infrastrutture sono prese esattamente come venivano prese nel passato, facendosi influenzare da fattori esterni al progetto anziché focalizzarsi sulle dinamiche propulsive del progetto stesso.

Senza linee guida specifiche e puntuali, che riconducano la valutazione nell’alveo di un percorso oggettivo, puntuale e verificabile, l’analisi costi-benefici rischia di fornire sempre le risposte che qualcuno si attende, per accettare e confutare decisioni già prese prima dell’inizio dell’analisi.

La seconda questione, invece, è legata al lancio di un referendum per dire sì o no alla Tav. Anche qui c’è qualcosa che non torna. Il sì o il no alle opere strategiche dovrebbe essere il frutto di un percorso di analisi e valutazione integrato e non essere demandato – probabilmente per lavarsi pilatescamente le mani – ai cittadini, che hanno tutto il diritto – a differenza dei politici – di non sapere nulla dell’oggetto della discussione.

Qui si sta confondendo la legittima richiesta di partecipazione dei cittadini nei processi decisionali relativi alle infrastrutture con il fatto di addossare una decisione strategica per la competitività del Paese sulle spalle di ignari cittadini. Questo accade quando la politica inizia ad avere paura, cercando di nascondersi dietro alla volontà popolare. La sensazione è che per superare un no che viene fuori da un’analisi costi-benefici manchevole, e per non scontentare una parte di società che invece ritiene essenziale la realizzazione dell’infrastruttura, si voglia attribuire un potere decisionale smisurato ai cittadini, che potrebbero anche ignorare completamente l’oggetto della discussione.

Ma c’è di più: per superare fenomeni dilaganti di Nimby, affiancati e rafforzati da altre situazioni ancora più pericolose, quali il Nimtoo (Not in my term of office, ossia non nel mio mandato elettorale) che determina la strumentalizzazione di determinate infrastrutture a fini politico-elettorali, si sta scegliendo la strada più facile (e quindi più pericolosa), quella che turba di meno la politica e la propria base elettorale, ma che contiene in realtà un alibi mostruoso ed ipocrita: lo hanno deciso i cittadini, lo ha deciso il popolo.

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