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Il mantra dei porti chiusi e il fallimento europeo sulla migrazione. L’analisi di Naso

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Ormai da quasi due settimane vagano nelle acque del Mediterraneo, tra le temperature che rasentano gli zero gradi e le onde che raggiungono i tre metri, due navi gestite da due diverse ong tedesche, la Sea Watch 3 che batte bandiera olandese e la Sea Eye, speranzose di ricevere un’autorizzazione da parte di una qualche governo per attraccare in un porto dove far sbarcare la cinquantina di persone totali presenti sulle imbarcazioni. Non c’è stato però ancora nessun governo europeo a farsi avanti per sbloccare lo stallo, e nemmeno pare che si stia negoziando per farlo, a differenza di altre situazioni simili verificate in precedenza. Nel frattempo, continuano ad arrivare notizie di preoccupati appelli dei medici in cui si parla di tre bambini in una condizione per loro molto pericolosa, tenuti in condizioni del tutto precarie, oltre che delle richieste di apertura dei porti di varie associazioni. Soltanto in serata ieri Malta ha rilasciato l’autorizzazione ad entrare in acque maltesi per ricevere assistenza, ma non è chiaro se le persone potranno scendere.

“È una responsabilità gravissima che l’Europa si sta assumendo, nel suo insieme ma anche nei singoli Stati dell’Unione europea, al di là di ogni considerazione tecnica e politica sul tema delle rotte mediterranee e dell’arrivo dei migranti c’è un’urgenza umanitaria. Invece, di fronte a quello che rischia di essere un gravissimo incidente umanitario, l’Europa fa finta di nulla, complice il periodo particolare di festività”, dice a Formiche.net Paolo Naso, docente di scienze politiche all’università La Sapienza di Roma, coordinatore del progetto Mediterranean Hope e della commissione studi dialogo e integrazione della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. “Intanto noi abbiamo notizia di bambini in condizioni molto difficili, e resta il fatto che non si riesce a individuare una soluzione tecnica e umanitaria per un numero assolutamente risibile di persone, il che dà la misura del fallimento assoluto delle politiche europee in materia di immigrazione”, commenta.

A suo parere, si tratta di incapacità di gestire i flussi o di una scelta deliberata, che viene da più parti?

La responsabilità è del governo italiano ma in questo caso particolare non solo. Nel senso che il governo ripete compulsivamente il mantra dei porti chiusi, che è una frase poco assennata, perché di fronte a un’emergenza umanitaria possono essere riaperti. Il problema è anche il silenzio degli altri paesi europei, in particolare di quelli più esposti come Malta o la Spagna, ma anche della Germania. Nel senso che, in considerazione del fatto che in questo caso le due Ong hanno la loro principale base in Germania, servirebbe che la Germania possa essere la meta di destinazione.

Quindi ci sono responsabilità ben definite.

Sicuramente ci sono responsabilità individuali e collettive dell’Unione europea, ma c’è poi anche il problema delle norme. È incredibile come ad oggi, di fronte a sbarchi che continuano, ed è il caso di ricordare che la settimana scorsa la Open Arms è arrivata in un porto spagnolo con oltre trecento migranti salvati nel Mediterraneo centrale, l’Europa non si sia data dei meccanismi di governo rispetto a questa situazione. Il minimo sarebbe istituire una cabina di regia, che si faccia carico del salvataggio umanitario trovando un porto sicuro, per passare poi alla redistribuzione in base a criteri negoziati e discussi diventa un momento secondo.

Il governo italiano secondo lei come dovrebbe agire, si tratterebbe di alzare la voce in Europa?

Immediatamente dovrebbe aprire il porto e nello stesso momento aprire un pesante contenzioso europeo per creare un meccanismo sicuro e costante, e non occasionale. Un dispositivo permanente di redistribuzione centralizzata dei profughi. Le persone innanzitutto vengano salvate, poi cominci la discussione su chi se li deve prendere, così che l’Italia possa avanzare delle proposte. In questo caso l’Italia ha buone ma anche cattive ragioni.

Vale a dire?

Buone perché lo scorso anno ha accolto centosessanta mila persone, ovvero più di altri paesi europei. Cattive perché in termini di percentuale di richiedenti asilo è assolutamente al di sotto di altri paesi europei. Ha quindi qualche carta da giocare in ragione del flusso, ma ha anche debolezze per quanto riguarda la politica strutturale dei richiedenti asilo. Il decreto Salvini e soprattutto quello che lo ha preceduto, che sostanzialmente ridimensiona la possibilità di concedere la protezione umanitaria, fa in realtà pensare che l’Italia tenderà ad abbassare ulteriormente la propria quota di richiedenti asilo rispetto ai paesi europei. Il che fatalmente la mette in una situazione difficile, nell’ambito di un negoziato in cui si vuole spiegare che noi la nostra parte l’abbiamo fatta.

Perciò secondo lei la mancanza di dialogo, o peggio lo scontro, sostanzialmente non giovano all’Italia.

Chi di Europa ferisce di Europa perisce, e non si può essere europeisti a intermittenza. O lo si è sempre, e si individua nel foro europeo il foro di competenza di alcune questioni, o non lo si è mai. Mentre l’Italia vuole essere invece europeista quando ha bisogno di sostegno e aiuto, e sfuggire alle regole europee quando vuole creare politiche indipendenti e sovraniste. Questo atteggiamento schizofrenico non paga, non è serio né accettato.

Quale soluzione, allora?

Al netto che il ministro degli Esteri italiano questa idea di accogliere non la concepisce neanche, avrebbe potuto accogliere su condizione. Mettendo poi in campo un’azione energica per spiegare che un conto sono i flussi permanenti, che ogni paese si gestisce in modo proprio. Ma questi flussi, che non sono verso l’Italia ma verso l’Europa, vanno condivisi con misure successive alla prima azione di salvataggio, e devono prevedere l’impegno di un numero ampio di paesi che si fa carico di quote particolari.

Eppure l’attuale governo e lo stesso ministro dell’Interno sembrano favorevoli a soluzioni come quelle dei corridoi umanitari.

L’atteggiamento favorevole verso corridoi gestiti da associazioni o chiese, che dallo stesso governo è stato mostrato ad esempio nel caso del partenariato stretto con la Comunità Papa Giovanni XXIII per le persone provenienti dalla Libia, resta. Ma è la presa d’atto d’una situazione d’emergenza in alcuni paesi, come in Libano, e a maggior ragione si dovrebbe aprire anche alla Libia, per soggetti vulnerabili e a rischio, così che in riferimento al trattato di Shengen si individua una condizione di visto umanitario. Si individuano persone in condizioni di vulnerabilità nei paesi in cui sono, li si identifica, e attraverso un visto legale le si fa entrare in Italia.

Uno strumento che ha trovato un consenso quasi unanime.

Un meccanismo che funziona con successo dal 2017, una cosa buona e siamo contenti che il ministro Salvini li abbia confermati e addirittura ampliati. Ma troviamo del tutto contraddittorio il fatto che se uno arriva da un luogo come il Libano è una persona che viene accettata, mentre se uno scappa da quello stesso inferno, anzi ancora maggiore, che è la Libia, invece non viene trattato come persona alla quale dare protezione. Qui vedo una contraddizione. Se non si conosce l’identità della persona, l’accertamento lo si può fare in Italia. E se si appura che questa non risponde ai criteri individuati, ad esempio si individuano collusioni con organizzazioni terroristiche, a quel punto non mancherà allo Stato l’individuazione di strumenti idonei a metterlo nella situazione di non nuocere.

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